ll caso Spotlight

Sin dalle primissime scene – un flashback datato Boston, Massachusetts,1976 –  il film racconta per rapidi cenni  l’ennesimo abuso su un minore compiuto da un sacerdote di quartiere, ma al tempo stesso rivela già compiutamente la rete pervasiva e i meccanismi antichi e ben oliati della connivenza tra potere religioso, giudiziario, sistema educativo, autorità di pubblica sicurezza, stampa locale.  Non possiamo dirlo con sicurezza, ma forse Tom McCarthy,  il regista di Spotlight – una macchina cinematografica lubrificata anch’essa alla perfezione dal talento di tutti i suoi componenti – ha voluto rendere omaggio e ricordare agli spettatori l’anno in cui apparve Tutti gli uomini del Presidente di Alan J. Pakula, il film sulla celebre inchiesta del “Washington Post” che in meno di due anni dal suo inizio portò alla procedura di impeachment contro Robert Nixon per lo scandalo Watergate.

Quel che è certo è che l’opera prolunga e arricchisce la migliore tradizione statunitense del filone “cinema e stampa”. D’altra parte, negli USA, il giornalismo d’inchiesta e investigativo – che ebbe sostegno e popolarità già in quegli anni lontani grazie a reporter come Woodward e Bernstein e a direttori coraggiosi come Ben Bradlee – non è mai morto (nonostante la spietata concorrenza della rete, la precarietà crescente, le crisi di denari e ideali della professione); e anche quella vena cinematografica è lungi dall’esaurirsi (a metà marzo, ad esempio, esce anche in Italia Truth – ispirato allo scontro, nel 2005, e su vicende assai meno politiche, tra Bush senior da una parte  e il celebre anchorman Dan Rather e la produttrice televisiva Mary Mapes dall’altra). Così, vedendo Spotlight, non possiamo fare a meno di rattristarci pensando a quanto nel nostro paese scarseggi ormai questo sano antidoto alla corruzione dei potenti (di vario calibro) e all’impotenza dei cittadini (lettori ed…elettori). E non solo il sistema dei media – web, tv, carta stampata –  ha progressivamente smarrito la voglia e soprattutto il coraggio di fare inchieste scomode (vi resistono solo poche casematte, sotto assedio economico e giudiziario, si pensi a “Report”),  ma anche il cinema  – s’intende, quello mainstream, non certo, e per fortuna, i tanti filmmakers resistenti che indagano sulle nostre ”materie oscure” – sembra aver dimenticato una tradizione gloriosa di cui, insieme alla nostalgia, restano numerose e importanti testimonianze (analizzate di recente nel saggio di Anton Giulio Mancino “Schermi d’inchiesta: gli autori del film politico-indiziario italiano”, Kaplan 2012).

Gustiamoci dunque Spotlight, che in poco più di due ore, scandite dal ritmo incalzante di dialoghi sempre pungenti e mai superflui e dal montaggio fluidissimo di Tom McArdle (complice da sempre del regista) ci offre (al prezzo di un solo biglietto) due preziose lezioni, di buon cinema e di buon giornalismo.

Seguendo la pura realtà dei fatti e dei luoghi (il film è girato interamente e Boston), dunque del loro “contesto” (per citare, a proposito di inchieste, Leonardo Sciascia), il film ha alle spalle un lungo e minuzioso lavoro preparatorio che il team produttivo e creativo del film ha condotto a diversi livelli: sulle inchieste svolte dal “Boston Globe” (il film è ambientato nei mesi che precedettero la pubblicazione, nel solo 2002, di circa 600 articoli che illuminavano  oltre 1.000 casi di abusi commessi da 249 sacerdoti sparsi in varie parti del mondo), sui protagonisti reali della vicenda, a lungo intervistati prima del film dagli stessi attori, nella ricostruzione “d’epoca” degli spazi  e degli arredi (lo scenografo e architetto Stephen Carter ha dovuto rendere lo stato dell’arte tecnologico di una redazione giornalistica all’inizio del nuovo millennio, praticamente un secolo fa).

Quanto al piano specificamente narrativo, McCarthy e il cosceneggiatore Josh Singer confezionano una storia che a differenza dei precedenti più famosi – il film già citato di Pakula piuttosto che un capolavoro senza tempo come Citizen Kane – si rivela  ancora più istruttiva ed esemplare,  libera come è  dagli  archetipi e modelli consueti degli eroi “soli e contro tutti” o dei self-made tycoon. Spotlight è infatti il vero nome e la vera storia del investigativo specializzato del “Boston Globe”. Tutto cambia però,  appena due mesi prima dall’11 settembre,  quando  Martin ‘Marty’ Baron  arriva a dirigere il Globe proveniente dal Miami Herald (andrà poi a dirigere sino a tutto il 2012 il mitico Washington Post) e chiede subito alla redazione di occuparsi degli scandali di pedofilia della chiesa (dopo tanti anni, da qual 1976, di messaggi non raccolti e di articoli rimasti nei cassetti). Il team rimotivato riannodera i fili di quelle inchieste abortite  e  opererà in maniera coesa ed trasparente, almeno rispetto all’obiettivo finale, agli occhi dell’intera redazione. I personalismi del direttore del giornale, del team leader, dei singoli reporter  cedono il passo alle esigenze del lavoro di squadra. Un lavoro – e sta in questo soprattutto la lezione – che non ha fretta di arrivare alle rotative (o in video), che non cerca lo scoop a tutti i costi, ma si dà il tempo  (ancora più tempo del consueto) per ogni necessario e professionale fact-checking, come pure per uscire nelle strade, a cercare e incontrare i testimoni che contano per la storia.

Coerentemente, la regia di McCarthy non isola gli attori, non cerca un protagonista centrale e  indugia in primi piani e in controcampi solo quando necessario. Piuttosto, resta sempre un passo indietro, a inquadrare a figura intera i personaggi al lavoro (al telefono, al computer), nei loro spazi ristretti, ingombri di carte, anche male illuminati,  o li pedina nelle loro a volte un po’ rischiose missioni in esterni. La dimensione corale del film è poi esaltata da un cast d’eccezione, non solo nei ruoli principali (affidati ad attori che vantano tutti un curriculum assai lungo e versatile, a cavallo tra cinema, teatro, tv), ma anche nelle parti minori. Nostre personali preferenze  vanno a  Michael Keaton (che è il team leader Walter “Robby” Robinson), ormai in una seconda giovinezza d’attore, al Mark Ruffalo (che è Mike Rezendes), perfetto in ogni postura corporea e mimica facciale nel rendere la caparbietà, a volte fintamente ottusa, e il continuo rimuginare del reporter di razza, ma anche alla  performance tutta in sottotono di Liev Schreiber (che ci piace ricordare pure come regista di Ogni cosa è illuminata, 2005) nei panni di Martin Baron. Senza dimenticare il come  sempre superbo Stanley Tucci (qua alle prese con un personaggio apparentemente marginale, lo scontroso e diffidente avvocato delle vittime). Di alto livello anche le interpretazioni degli altri protagonisti, da Rachel Mcadams (Sacha Pfeiffer),  a Brian D’arcy James (Matt Carroll, l’esperto di informatica), a John Slattery (che è il vice-direttore dell’epoca e figlio d’arte Ben Bradlee Jr., che vinse il premio Pulitzer nel 2003).

Ovviamente, la leadership del direttore resta il perno di un’organizzazione ancora molto gerarchica come una testata giornalistica (almeno di tipo tradizionale), così come cruciali risultano, oltre a una lucida determinazione, l’assenza di conflitti di interesse per svolgere davvero il ruolo di “watchdog” dei cittadini rispetto ai poteri costituiti. Martin Baron era certamente un “visitor”, nel senso di un alieno, per l’establishment della città: “un uomo non sposato, ebreo, che odia il baseball” dirà di lui un notabile locale. Ma forse non era  un’ospite del tutto inatteso proprio dalla comunità cittadina (The visitor, lo ricordiamo, era il titolo originale dell’ottimo film di McCartyh del 2007) e in particolare delle schiere sempre più folte delle vittime degli abusi sessuali (e degli annessi ricatti morali ed economici: non a caso le vittime erano appartenenti alle fasce più povere e alle famiglie meno stabili della città, come del resto ci aveva già spiegato, sempre in tema di abusi sessuali sui minori, Clint Eastwood in Mystic River, 2003). L’intuizione al tempo stesso coraggiosa e innovativa di Baron, quella che segnò la svolta dell’inchiesta, sprovincializzandola e rendendola un case-study per il giornalismo mondiale,  fu di puntare al livello superiore, ovvero  alle responsabilità dell’istituzione e non più ai singoli preti pedofili.

La didascalia finale del film ci ricorda che il cardinale Bernard Francis Law che, a dispetto del suo cognome, era in cima alla piramide di coperture e depistaggi dei crimini, sessuali e non solo, si era infine dimesso nel dicembre 2002, ma, anziché ritirarsi in monastero come aveva sulle prime promesso, era stato riassegnato alla importante  Basilica di Santa Maria Maggiore in Roma. Eravamo allora nell’anno di grazia 2004 e, a Boston come in Vaticano, “tutti gli uomini del Cardinale” non avrebbero mai immaginato di doversi confrontare un giorno con un Papa di nome Bergoglio.

TRAMA

Il caso Spotlight racconta la storia del team di giornalisti investigativi del Boston Globe soprannominato Spotlight, che nel 2002 ha sconvolto la città con le sue rivelazioni sulla copertura sistematica da parte della Chiesa Cattolica degli abusi sessuali commessi su minori da oltre 70 sacerdoti locali, in un’inchiesta premiata col Premio Pulitzer.


di Sergio Di Giorgi
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