Living

Ignazio Senatore scrive del film di Oliver Hermanus, remake di "Vivere" di Akira Kurosawa.

Living (Oliver Hermanus)

Ma quanto sono brutti i remake. Vogliamo mettere Il grande Gatsby, per l’elegante e raffinata regia di Jack Clayton, con il chiassoso film di Baz Luhrmann? E che dire del delizioso Sabrina di Billy Wilder con Bogart, Hepburn e Holden rispetto allo spento e opaco film diretto da Sydney Pollack, interpretato dall’inespressivo Harrison Ford? La lista sarebbe infinita, come quella che riguarda i rifacimenti nostrani.

Chi preferirebbe, infatti, la riedizione degli Indifferenti, per la regia di Leonardo Guerra Seràgnoli e non la magnetica pellicola diretta da Citto Maselli? Eppure, Living di Oliver Hermanus, remake del capolavoro Vivere di Akira Kurosawa, non fa rimpiangere l’originale. Il regista sudafricano rispetta l’ambientazione degli anni ’50, ma sposta la vicenda da Tokyo a Londra.

Protagonista è il signor Williams (Bill Nighy), impiegato capo della Sezione Lavori Pubblici, soprannominato “Mister zombie” per la sua austera rigidità da Margaret (Aimee Lou Wood), impiegata in quell’ufficio, dove regna l’assoluto silenzio e le pratiche, nel rispetto di un cronico immobilismo, giacciono sepolte l’una sopra l’altra. Dopo aver scoperto di essere affetto da un tumore, il signor Williams decide di tuffarsi nella vita; incontra, dapprima, uno scrittore in un pub e tracanna con lui qualche drink, invita a cena e poi al cinema la dolce e frizzante Margaret e infine, prima di morire, rispolvera una vecchia pratica che aveva insabbiato, come le precedenti, e si batte come un leone per realizzare un parco giochi per bambini, caldeggiato da un paio di mamme.

Hermanus dirige un film di gran classe, spruzzandolo con il classico tocco british. Al centro della narrazione, un “uomo senza qualità” che, invece di respirare la vita a pieni polmoni, l’ha dissipata, bandendo dal proprio vocabolario piacere e desideri. Rispetto al capolavoro di Kurosawa, il regista sudafricano introduce la figura di un nuovo assunto, che funge in qualche modo da fil rouge della vicenda e, soprattutto, a differenza del finale amaro dell’originale, lo edulcora e lascia che la battaglia del protagonista sia riconosciuta dai colleghi e resti viva nella memoria dei concittadini. Sceneggiato dal Kazuo Ishiguro, premio Nobel per la letteratura nel 2017.


di Ignazio Senatore
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