L’intrepido. 70a Mostra del Cinema di Venezia
Dobbiamo ammettere che tifavamo in cuor nostro per L’intrepido di Gianni Amelio, autore che abbiamo molto amato anche nei suoi film più controversi come i recenti La stella che non c’è e Il primo uomo. Non certo per desiderio nazionalistico di vedere tornare in Italia il Leone d’oro (che proprio Amelio conquistò l’ultima volta, 15 anni fa, con Così ridevano). Ma perché era ed è un film sul lavoro e anche un film (quasi) tutto girato a “Milano, di questi tempi” (come recita la didascalia iniziale), la città che era – e non è più, da tempo – capitale morale e dell’industria, quella che produceva beni, e che richiedeva soprattutto il “lavoro delle mani”. L’intrepido in effetti ci svela una Milano come metafora di un Paese che non c’è (più), che si è perso, perché ha perso la fiducia e la speranza, specie, quel che è peggio, da parte dei suoi giovani. Un percorso a zigzag, tra centro e periferie, per lo più freddo, piovoso e malinconico, riscaldato solo a tratti dalle luci di un bistrot o di un centro sociale (alcune sequenze si svolgono al Leoncavallo) o da un livido sole. Con Amelio come già con Soldini, Luca Bigazzi sa cogliere al meglio i colori e l’ “aria serena” che da oltre un ventennio circola nella metropoli lombarda. Che qua viene nitidamente fotografata anche in quel gigantismo architettonico calato dall’alto e sul quale aleggia sempre l’ombra delle mafie, che infatti continuano ad attecchire in città (si veda l’esplosione delle “video-sale da gioco”) come le aziende a chiudere e il lavoro a scarseggiare.
Purtroppo, nonostante uno scenario così ricco di potenzialità, il film finisce per perdersi a sua volta per strada, smarrendo le trame e i personaggi che attorniano il suo protagonista assoluto, quell’Antonio Pane che ha la maschera ineffabile di Antonio Albanese. Un incontro, quello tra l’attore e il regista, cercato fortemente da tempo da entrambi, che alla fine sembra aver condotto a una sorta di condivisione della narrazione, che risulta alla fine “invasa” dal personaggio di Antonio, quasi sempre al centro della scena. Se nomen omen, Antonio Pane è un uomo “buono”, che vorrebbe aiutare tutti e risolvere i loro problemi. Forse anche per questo si è ritrovato ad accettare il paradossale (ma non più di tanto) mestiere del “rimpiazzo”, colui che sostituisce, per poche ore o pochi giorni, altri lavoratori nelle più svariate attività -di norma pericolose o usuranti: sui ponteggi di un cantiere, animatore in un centro commerciale, pony express, operaio in tintoria, ecc. ecc.). Insomma, la quintessenza di una flessibilità che in Italia è precarietà cronica e rinuncia progressiva ai diritti. Decidendo di non appiattirsi sulla cronaca (come ha detto il co-sceneggiatore Davide Lantieri, nuovo alla collaborazione con Amelio), il film sceglie dunque un rischioso impasto tra elementi realistici e una continua tensione al surreale (da cui i numerosi omaggi, tra citazioni e marche stilistiche, a Charlot, Buster Keaton e a quel cinema, ma anche a Primo Levi piuttosto che al Calvino di “Marcovaldo”). Lo stesso Albanese ha ammesso in conferenza stampa che Pane è l’esatto contrario dei suoi celebri e straordinari personaggi, crudeli, paradossali, urlati e “tagliati con l’accetta”, quanto questo è ricco di ambiguità. Anche troppa forse, al punto da disorientare gli spettatori e mettere a repentaglio la credibilità narrativa del personaggio. Che vediamo spesso calmo, quasi serafico, anche di fronte alle angherie che deve sopportare (da un ottimo Alfonso Santagata nella parte del boss di una losca agenzia per lavori super-interinali), empatico ma anche insistente ed asfissiante, di certo emotivamente irrisolto nelle relazioni personali, specie nel rapporto – centrale anche qui, come in tutto il cinema di Amelio – tra padre e figlio, un musicista talentuoso ma assai fragile e insicuro, come la bella e giovane Lucia, incontrata per caso tra i banchi dei quiz di un megaconcorso (i due attori, Gabriele Rendina e Livia Rossi, incarnano una generazione di ventenni smarriti, ma pur con le attenuanti per un così impegnativo esordio, appaiono un po’ troppo intimiditi accanto ad Albanese).
Come il Vincenzo Buonavolontà, il tecnico manutentore de La Stella che non c’e (liberamente ispirato a “La dismissione” di Ermanno Rea) anche Antonio ama il lavoro in sé, il lavoro che è identità sociale e autonomia individuale, basata sulle competenze di chi “sa fare tanti lavori”. Come lui è un pò testardo e un po’ naive. La dignità, ha spiegato Amelio, è la caratteristica più evidente del personaggio che per questo lo accomuna a Charlot e a Keaton: un uomo solo, che ha perso l’amore e ne ha ancora troppa paura, ma che ha la forza di reagire ai compromessi, di uscire dalle situazioni più malsane, pagando di tasca propria, sempre pronto a cambiare, ogni giorno, ogni ora, a accettare le sfide, e alla fine a ricominciare altrove; un coraggio “del quotidiano” e una spinta che fa di tutto (e di più, anche qua tra sogno e realtà) per trasmettere al figlio.
Sarà interessante vedere come i giovani spettatori leggeranno questa figura di adulto e di padre. Ad Amelio non possiamo che riconoscere la giustezza delle intenzioni (e il loro essere coraggiosamente “fuori moda” rispetto al cinismo corrente). Ma se il film ha diversi momenti felici, l’esito complessivo resta per noi lontano da altre sue più riuscite e memorabili opere.
di Redazione