Lift
La recensione di Lift, di Felix Gary Gray, a cura di Guido Reverdito.
Mentre a Venezia è in corso un’asta milionaria che per una banda di criminali altamente sofisticati è un’ottima occasione per mettere a segno un nuovo colpo a sorpresa, il capo della gang viene avvicinato da una sua ex fiamma – ora però agente dell’Interpol –, costretta a farsi aiutare dalla ghenga di villain per recuperare un carico di 500 milioni di lingotti d’oro. Lingotti su cui si devono mettere le mani durante un volo di trasferimento a bordo di un aereo super segreto nel quale tutto, passeggeri compresi, non è nulla di quel che sembra.
Dopo anni di relativo appannamento creativo (come possono confermare titoli quali Straight Outta Compton del 2015, l’ottavo capitolo della saga di Fast & Furious e il non certo entusiasmante Men in Black: International uscito prima della pandemia), con questo action movie tutto adrenalina e CGI finito dritto nel palinsesto di Netflix senza passare per le sale, il californiano Felix Gary Gray classe 1969 torna a girare nel nostro paese a vent’anni di distanza da The Italian Job, inanellando una serie di location stereotipate da cartolina lievemente irritanti per il pubblico di casa nostra, che vanno dai canali veneziani della sequenza di apertura all’inevitabile villona in Toscana passando per il castello triestino di Miramare spacciato per ciò che non può essere.
E lo fa con un prodotto d’azione molto classico e rispettoso dei canoni del genere, forte di un impianto corale di personaggi tipici da serialità televisiva con però le facce di star di rispettabile grandezza chiamate a raccolta per fare cassetta: dal capobanda Kevin Hart (ormai un volto fisso nel mondo Netflix dopo Un padre, The Man from Toronto e Me Time – Un weekend tutto per me) all’agente dell’Interpol di Gugu Mbatha-Raw (già apprezzata in Black Mirror e Loki), dalla Úrsula Corberó de La casa di carta, all’usato sicuro di Vincent D’Onofrio, Jean Reno e Sam Worthington.
Azione scatenata come si conviene a questo tipo di prodotti unita a una certa propensione a ovviare con la grafica digitale (a tratti un po’ rudimentale) a inevitabili limiti di budget di una produzione con non poche ambizioni fanno di Lift un prodotto di facile consumo che si situa a metà tra il blockbuster carico di sogni di gloria e un prodotto di puro intrattenimento. Il cui ritmo avrebbe sicuramente beneficiato se si fosse imposta una cura dimagrante all’accumulo di subplot resi necessari per dare adeguato spazio ad alcuni degli interpreti con nomi altisonanti (come il cattivissimo me con cui Jean Reno gigioneggia a piacimento ogni volta che lo script gli regala un minuto di gloria).
di Guido Reverdito