Life

Anton Corbijn è fotografo oltre che regista e dunque non stupiscono la sensibilità, la sicurezza, l’agio con i quali si mette sulle tracce della vita di Dennis Stock, a sua volta fotografo, noto soprattutto per i memorabili scatti a famosi attori e musicisti jazz. Quello descritto da Corbijn nel suo atipico, meditativo e disciolto biopic è un uomo ancora giovane e non del tutto affermato dal punto di vista professionale, ma già amareggiato dalla separazione con la giovane moglie lasciata da sola a crescere un bambino: un figlio con il quale lui tenta in maniera frustrante e discontinua di costruire un legame sincero.

Soprattutto, Stock è annoiato, stanco di paparazzare divi da red carpet e di accettare banali lavori su commissione, e aspira a qualcosa di più originale, che possa dare spazio al suo temperamento artistico. L’occasione arriverà per caso, inaspettata, quando ad una festa organizzata da Nicholas Ray incontrerà un ragazzo solitario dall’aria imbronciata.  Immediatamente nel suo viso, nel suo atteggiamento, nel suo modo di parlare, l’occhio allenato del fotografo scova una traccia chiara e luminosa della potenza iconica che caratterizzerà James Dean, per ora solo un giovane malinconico cresciuto in una fattoria dell’Indiana, un attore semisconosciuto.

Un rapimento estetico, una febbre dell’immagine, una fascinazione ostinata per la potenza prorompente che si concentra in un volto, in un modo di essere, di pensare, di vivere le cose: questo vede Stock, mentre gli altri attorno a lui ancora non vedono nulla. E’ il 1955 e il mondo dello spettacolo, della musica, della cultura – il mondo tout-court? – stanno per cambiare, stanno già cambiando. Stock sa, perché lo sente nitidamente dentro di sé, che James Dean sarà il simbolo di una nuova generazione, ma non solo, sarà l’icona di una grande trasformazione già in atto. Per questo si ostina a volerlo fotografare: ma in un modo – e in un luogo – che sia intimo, autentico, che dica qualcosa di vero della quotidianità e della storia personale del giovanissimo Dean. Per questo, ancora, rifiuta un’occasione di lavoro in Giappone e segue l’attore nelle campagne innevate dell’Indiana, per arrivare alla fattoria dove è cresciuto.

Le ricostruzioni scenografiche dei luoghi – la stanza di Dean a New York – e dei “set” che fanno da sfondo agli scatti di Stock sono realizzate con paziente attenzione. Robert Pattinson si è definitivamente lasciato alle spalle la freschezza immatura degli esordi con Twilight – passando attraverso, ricordiamo, due regie di Cronenberg e una di Herzog – e riesce senza esitazioni a dare corpo e sostanza a un personaggio ombroso, che lotta per trovare uno spazio espressivo in un universo in mutamento, indeciso tra ostinazione e disincanto, fiducia e amarezza. Dane DeHaan dal canto suo compie, come interprete, uno studio complesso, del quale si percepisce a ogni inquadratura la fatica, il lavorio – tanto che in principio si avverte una certa artificiosità – sul movimento, sulla mimica facciale, sulla voce. E tuttavia è qui che si rintraccia l’unico punto debole di un film per il resto efficace, significativo e convincente: dove sono la tensione, il fascino, la trasgressività, l’inquietudine, la carica erotica che sprigiona il protagonista di East of Eden?

A questo appunto si potrebbe obiettare che l’intento di Corbijn – in questo senso lodevole e condivisibile – è quello di raccontare il prima,  il processo di costruzione e non quello di consacrazione del mito, nel rispetto della cronologia dei fatti, se consideriamo che l’icona-Dean si concretizza a livello mediatico tendenzialmente post-mortem. E’ anche vero che la celebrazione aprioristica di una “ribellione senza causa” avrebbe portato con sé innumerevoli rischi, primo fra tutti quello di cadere nello stereotipo, nella banalizzazione, nel ricamare forme vuote su una sostanza che diviene sempre più esile a furia di dirne troppo, e spesso in modo superficiale.

Ma basta questo a giustificare l’assenza totale dell’aura che si percepisce attorno a questo svogliato, pigro e sfuggente Dean di Corbijn? Esiste, ed è anche ben fatta sotto molti aspetti, una ponderata caratterizzazione del personaggio, ma si ferma all’esteriorità, all’epidermide. Paradossalmente, quello che vede chiaramente Stock restandone abbagliato – quello che Dean in fin dei conti possedeva – è proprio quello che rimane precluso allo sguardo dello spettatore: quell’inafferrabile quid, in parte indecifrabile e tuttavia determinante, che è in fondo la chiave di volta della trasformazione ultima e definitiva del successo in consacrazione vera e propria e del corpo attoriale – complice la morte “maledetta” – in immagine iconica che lo trascende, ponendosi al di fuori del tempo.

A discolpa di Life è giusto però accogliere un ultimo, cruciale interrogativo: fino a che è punto è possibile restituire la rappresentazione di una rappresentazione, l’immagine di un’immagine, senza che questa appassisca, si contamini, perda la sua magia, in un certo senso – poiché viene doppiata – la sua unicità?

Trama

Dennis Stock è un giovane fotografo stanco di muoversi sulla scia dei divi hollywoodiani per banali lavori su commissione e cerca l’occasione per mettersi alla prova con qualcosa di autentico e personale; la troverà incontrando ad una festa il giovane – e non ancora famoso – James Dean, al quale proporrà un servizio fotografico per la rivista Life.


di Arianna Pagliara
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