Life Itself

Dicono che buttasse giù le sue ragionatissime recensioni nel giro di mezz’ora, “fast and furious”. Roger Ebert, firma storica del “Chicago Sun-Times”, è uno dei nomi mitologici della critica cinematografica americana, anche per via della notorietà dei programmi tv condotti con l’amico/rivale Gene Siskel. Life Itself, documentario diretto da Steve James, racconta vita morte e miracoli di questo critico grassottello e occhialuto, premio Pulitzer, facile all’alcool e irresistibilmente attratto dalle quinte misure dei reggiseni, figlio di un elettricista e di una casalinga, un uomo in grado di umiliare Scorsese e di lanciare nuovi autori solo alzando o abbassando un pollice. Aggredito da un tumore alla gola, Ebert è morto nel 2013; esercitò fino all’ultimo la sua professione di critico cinematografico, per la quale utilizzò pionieristicamente internet e social network.

Come nell’autobiografia da cui il documentario prende il titolo, si racconta senza peli sulla lingua una persona che i suoi stessi amici descrivono spesso egoista e sbruffone, dei suoi litigi con Siskel, delle sue depressioni, finché l’afroamericana Chaz lo porta davanti all’altare donandogli a cinquant’anni una nuova serenità. Quando però è in scena la sua malattia, ogni altra questione perde senso. Il documentario si apre tra l’altro proprio con gli ultimi giorni del critico, sviluppando la narrazione attraverso flashback. La scelta della cornice è stata forse suggerita dall’intento di familiarizzare con l’immagine sfigurata del protagonista (fallite le prime cure, fu necessario resecargli le mascelle inferiori). Non è però possibile abituarsi a un simile scempio; né aiuta sapere che Ebert volle espressamente che il documentario includesse questa fase della sua vita. “Bisogna raccontare per intero la verità”, scrisse al regista, “questo film non è solo tuo”. Come ogni film, pure Life Itself appartiene un poco anche allo spettatore, alle sue reazioni, alla sua pazienza, e non gli va nascosto che, malgrado si parli molto di cinema (e malgrado il sunto offerto dal trailer), Life Itself non è il ritratto di un critico ma il lungo funerale di una persona soggetta come ciascuno alle drammatiche limitazioni della condizione umana.

Come fece in tutta la sua vita, Ebert ha cercato di dirigere la propria esistenza fino all’ultimo, non risparmiando alla telecamera sedute mediche, difficoltà motorie e motti di spirito espressi tramite sintetizzatore vocale. Capacità sovrumana di mostrarsi in tutte le proprie limitazioni? Atto eroico e spudorato di un uomo che intende mostrare l’anima prima che il corpo? Può darsi. Eppure all’epoca di Blue Velvet, il documentario lo ricorda, lo stesso Ebert stroncò il film di Lynch perché sconvolto da una scena in cui Isabella Rossellini gli era apparsa indecorosamente umiliata. “L’arte drammatica”, scrisse in quell’occasione, “solleva uno specchio davanti alla vita, non deve riprodurla”. Life Itself sembra invece interessato a documentare la vita di Ebert senza sollevare alcuno specchio, preoccupato di non omettere alcunché, per quanto sgradevole esso possa essere. Ci si ritrova così a sperare che lo stoico protagonista del documentario, come fece Nicholas Ray con Wim Wenders in Lampi sull’acqua, a un certo punto ordini un definitivo, pietoso “Cut!”. Il risultato è straziante, indubbiamente commovente, ma anche ricattatorio e insolente nella sua spudoratezza ospedaliera, riproduzione di un dolore più che riflessione su di esso (e il finale con la platea che saluta Ebert a pollice in su è pura retorica wasp).

Tra le conseguenze dell’approccio c’è anche il fatto che l’argomento cinema viene ridimensionato e svuotato nella sua importanza prima ancora che nella percentuale di scene ad esso dedicate. Lo spunto chiave consiste in un particolarissimo regalo di cui nel film si narra il passaggio di proprietà: una scatola di latta contenente un puzzle che Alfred Hitchcock aveva donato a Marilyn Monroe, ereditata da Lee Strasberg e quindi arrivata a Laura Dern, che la fece avere a Ebert che la affidò infine al regista Ramin Bahrani. Il quale la tiene come una reliquia, a tal punto da non osare comporre quel puzzle maneggiato da semidei come Marilyn e sir Alfred. Sarebbe un soave aneddoto se non fosse accompagnato dalle immagini di Ebert che si trascina su una carrozzina con una sciarpa che gli incornicia pietosamente la mezza faccia risparmiata dal bisturi. In confronto al calvario del malato, tutta la sua precedente esistenza, l’intelligenza del suo lavoro, la passione e l’influenza delle sue critiche, la bellezza e sapienza del cinematografo tutto, si riducono ironicamente a un giochetto infantile dentro una scatolina di latta, e la devota reverenza del suo ultimo proprietario sembra un fanatismo da nevrotico.

D’altra parte è interessante notare come l’argomento malattia (incurabile) sia al centro di diverse pellicole, anche di appeal più ampio rispetto a Life Itself (solo in questo periodo, l’atrofia muscolare di Lou Gehring in La teoria del tutto e l’Alzheimer di Still Alice, entrambi in odore di Oscar). Cosa questo voglia dire andrà prima o poi analizzato.

TRAMA

Poco dopo aver saputo della realizzazione di un film dalla sua autobiografia, Roger Ebert scopre di essere gravemente malato. La lavorazione va comunque avanti. Si ricostruisce, con l’aiuto di testimoni eccellenti, la luminosa carriera del critico del Chicago Sun-Times, dagli esordi al Pulitzer, dall sceneggiature per Russ Meyer alla popolarità televisiva in coppia con l’amatodiato Gene Siskel. La malattia nel frattempo progredisce, ma Ebert continua, fin dove può, a rispondere alle domande del regista…


di Alberto Anile
Condividi