Lettere da Iwo Jima

I film di guerra, anche i capolavori entrati nella storia del cinema, hanno un limite strutturale evidente che riguarda soprattutto la loro unilateralità. Essi, infatti, raccontano sempre la guerra dalla parte di chi è sopravvissuto, dalla parte cioè di coloro che sono riusciti a tornare indietro dall’inferno, magari segnati nel corpo e nello spirito, ma comunque vivi. Lettere da Iwo Jima di Clint Eastwood racconta e fa vedere invece la guerra dalla parte dei morti, da quelli che non sono tornati indietro ma che per una volta riescono a far sentire la loro voce. Per questo, oltre ad essere il capolavoro che è, Lettere da Iwo Jima è soprattutto il più impressionante e sincero film pacifista che io ricordi.
Sull’isola di Iwo Jima si svolse una delle più sanguinose e inutili battaglie della seconda guerra mondiale: una vera ecatombe in cui trovarono la morte più di ventimila soldati giapponesi. La particolarità di quella strage è che la gran parte dei giapponesi sapeva di avere il destino segnato: non sarebbe arrivata, infatti, nessuna flotta imperiale in aiuto (era già stata distrutta), le armi e i viveri scarseggiavano, le forze americane erano soverchianti, e l’unico ordine ricevuto dagli ufficiali era vendere cara la pelle.
Eastwood racconta le reazioni di questi uomini (gli atti d’eroismo e le debolezze, l’istinto di sopravvivenza e gli scatti di autentica follia), ma soprattutto resta attaccato alle loro facce e ai loro gesti, mostra i loro momenti di intimità, i ricordi, le nostalgie, ci fa sentire le lettere scritte ai famigliari (che non possono neppure essere spedite e saranno trovate solo 60 anni dopo: le “voci dei morti” di cui dicevamo prima).
Un film pacifista perché racconta la follia della guerra, ma anche l’ingiustizia sociale (i conflitti di classe che si perpetuano in trincea e anche davanti alla morte), l’incapacità e il cinismo dei comandanti, l’abiezione umana a cui è costretto chi si trova a combattere il nemico e per questo viene spinto e legittimato anche a perpetrare omicidi e violenze. I giapponesi e gli americani si sparano addosso senza neppure vedersi, solo qualche volta entrano in contatto e allora possono accadere piccoli grandi miracoli nati dall’umanità e dalla solidarietà tra simili: un ferito che merita di essere curato, una battuta scambiata sui divi di Hollywood, un ricordo delle Olimpiadi di Los Angeles.
Clint Eastwood si mostra ancora una volta regista di grande maturità e potenza espressiva, capace di usare i toni alti e solenni, come quelli sommessi e malinconici, capace di rappresentare la violenza e la poesia, l’esplodere delle battaglie e la verità umile e importante dei singoli, il nobile agire del leggendario generale Kuribayashi, che muore pensando all’onore dell’Imperatore e suo, e l’umanissima paura del panettiere Saigo, i cui pensieri vanno invece solo alla moglie lontana e alla figlia nata da pochi mesi e che forse non conoscerà mai. La guerra, il coraggio, il sacrificio di milioni di vite umane, tutto visto 60 anni dopo, nel buio di una galleria, con una carta da lettere che si sfarina tra le mani.
di Piero Spila