Lei
Se c’era ancora qualche dubbio che Spike Jonze fosse uno degli autori più originali prodotti dal variegato panorama del cinema indipendente Usa negli ultimi vent’anni, vedendo questa sua ultima e cerebrale fatica non sarà difficile per nessuno convincersi che le cose stiano davvero così.
Poliedrica personalità ormai rara nel mondo della celluloide, Jonze è infatti uno dei pochi registi in grado di passare con assoluta disinvoltura da esperienze di altissimo profilo nel campo del videoclip (suoi certi mitici corti che illustrano canzoni dei Beastie Boys, Biörk, Fatboy Slim, Arcade Fire, Daft Punk, Chemical Boys), a geniali intuizioni produttive sul piccolo schermo (basti ricordare che nel 2000 è uno dei creatori della serie di culto Jackass su MTV), arrivando perfino a concedersi il lusso di scrivere testi per canzoni (sua la bellissima e struggente The Moon Song cantata dai due attori protagonisti di Lei), a curare le coreografie di molti dei video musicali diretti, ma anche a recitare (in The Wolf of Wall Street era il broker di periferia che insegna al “lupo” come infinocchiare i clienti, mentre in questo Lei dà la voce all’alieno di un videogioco con cui Joaquin Phoenix si intrattiene tra le pareti domestiche).
Se poi si aggiunge che dal 1999 Jonze ha scritto e diretto alcuni dei più originali lungometraggi che sia capitato di vedere sul grande schermo in anni di vacche magre a livello di ispirazione e creatività (basterebbe citare il folgorante e geniale esordio di Essere John Malcovich del 1999 e il forse ancor più spiazzante Il ladro di orchidee del 2002), non stupisce affatto che anche questo suo ultimo film sia destinato a cogliere nel segno sfruttando le stesse armi già usate in passato. Ovvero la capacità di rendere unico il più liso dei temi – in questo caso una storia d’amore molto particolare – attraverso un approccio del tutto inedito alla materia ma anche il suo inserimento in un contesto di sfruttamento funzionale di un genere cinematografico apparentemente inadeguato alla storia raccontata qual è la fantascienza.
Lei, Her nell’originale inglese, è di fatto una vicenda che si situa nei territori della science fiction pur prescindendo in maniera quasi integrale dal seviziare il pubblico col classico armamentario di paraphernalia narrativi che fanno sempre da inevitabile corredo ai titoli inseribili in tale contenitore. Siamo infatti in un futuro prossimo abbastanza vicino al nostro, in una Los Angeles vagamente riconoscibile per via soprattutto della solarità accecante che domina negli esterni, i colori vivaci dell’abbigliamento dei personaggi nonché qualche sporadica uscita sulle arcinote spiagge sabbiose della tentacolare megalopoli californiana. Senza però che in giro vi siano tracce di una tecnologia troppo lontana da quella cui siamo abituati (se si eccettuano forse PC molto veloci e interattivi e il sistema operativo intelligente che fa da motore mobile all’intero script).
Al centro della vicenda raccontata c’è Theodore, introverso trentenne che, reduce da un divorzio subìto senza essere riuscito a combattere quanto necessario per evitarlo, si guadagna da vivere scrivendo lettere d’amore a pagamento per quanti non sono in grado di farlo o non ne abbiano il tempo materiale. Deciso a cicatrizzare la ferita lasciata dal matrimonio andato in pezzi ma anche per popolare in qualche modo il deserto emotivo che è la sua vita sentimentale (comprovata sullo schermo da un appuntamento al buio del tutto fallimentare), Theodore si lascia attirare da una pubblicità vista in giro per strada e acquista il sistema operativo OS, propagandato come rivoluzionario perché in grado di interagire con l’utente sviluppando relazioni dinamiche in maniera mai vista prima.
Lo slogan non mente. A Theodore bastano pochi giorni per iniziare a scoprire un mondo nuovo: OS gli si palesa attraverso la voce suadente di Samantha, femmina virtuale senza corpo capace però di interagire e relazionarsi con lui in maniera tanto empatica e interattiva da far somigliare il tutto a un vero e proprio rapporto tra esseri umani in carne e ossa. Pensato e concepito come uno strumento in grado di leggere ed elaborare i sentimenti e le aspettative dell’utente, OS ha infatti la capacità di adattarsi all’interlocutore interpretandone le urgenze interiori e trasformandosi rapidamente nel compagno ideale.
Cosa che puntualmente accade anche a Theodore e Samantha, il cui rapporto cresce progressivamente trasformandosi dall’iniziale diffidenza dell’uno (come accettare infatti l’idea che una struttura informatica possa simulare sentimenti ed emozioni tali da farla somigliare a un umano raziocinante?) e dalla persuasiva e suadente retorica verbale dell’altra (settata appositamente affinché scatti la scintilla della chimica virtuale) in una vera e propria crescita binaria a due. Ovvero in un percorso simile a ogni storia d’amore che si rispetti, con due anime che imparano a declinare insieme la voce del verbo amare coniugandola nell’armonia del sentire comune sulle rispettive fibrillazioni del cuore.
Ma come ogni storia d’amore che si rispetti, anche quella virtuale tra l’uomo e la macchina arriva al momento in cui la cortina di nebbia creata dalla cecità dell’innamoramento si dissipa di fronte all’insorgere crudele del vero: con un ribaltamento degno della creatività sulfurea che ha caratterizzato in passato ogni sua sceneggiatura, anche qui Spike Jonze ha però un guizzo di puro talento riuscendo a prendere in contropiede lo spettatore con una trovata dagli effetti narrativamente devastanti pur trattandosi del solito uovo di Colombo: là dove tutti si aspetterebbero che Theodore veda andare in briciole la sua dolcissima storia d’amore con la voce di Samantha nel momento in cui non riesce ad accettare la mancanza di fisicità reale dell’oggetto del proprio sentimento, ecco che invece l’introverso protagonista del film precipita nello sconforto più nero quando scopre che OS – incapace di comprendere quanto possa ferire l’umanissimo tarlo della gelosia – gli confessa candidamente di amare altri 639 utenti oltre a lui.
Premiato con un meritato Golden Globe e poi un Oscar per la migliore sceneggiatura dopo che alla voce di Scarlett Johansson era andato un discusso premio come miglior attrice al Festival di Roma non ostante non la si veda mai in scena, Lei parte dalla più scontata delle vicende (un uomo introverso che cerca di curarsi le ferite del cuore col classico chiodo scaccia chiodo ma in versione futuribile) per arrivare a perlustrare con lucido cinismo i rapporti che la tecnologia di domani potrà stabilire tra le sconfinate frontiere dell’informazione digitale e la fragilità dei sentimenti umani.
Un’analisi che Jonze conduce a suo modo, mescolando i toni del melodramma d’amore a quelli del film di introspezione psicologica, senza però mai dimenticarsi di essere in viaggio per le strade del futuro fantascientifico né di attirare l’attenzione del pubblico sui rischi nemmeno troppo potenziali che l’umanità 2.0 dei giorni nostri rischia di correre in massa se non cerca di ribellarsi alla dittatura dei social network e alla disumanizzazione dei rapporti concausata dalla presenza intrusiva nelle nostre vite degli strumenti di comunicazione digitale.
E non è infatti un caso che in tutte le scene ambientate in esterni la macchina da presa accompagni Theodore negli spostamenti alienanti da casa all’ufficio e ritorno mostrando una deragliata umanità di derelitti attaccati in maniera compulsiva a vari strumenti digitali coi quali comunicano freneticamente. Il tutto senza che vi sia mai un solo occasionale scambio di parole lungo il percorso in una celebrazione al contrario del trionfo del solipsismo più assoluto come sola forma di convivenza possibile all’interno di una comunità di monadi prive di contatti diretti e reali.
Ma Lei (non certo il primo film ad affrontare il rapporto emotivo tra macchina ed essere umano visto che il tema è già stato affrontato in vario modo da La donna esplosiva del lontano 1985, da S1mOne del 2002 o ancora da Ruby Sparks di due anni fa) è anche un vero laboratorio sperimentale di linguaggi e di forme espressive che Jonze offre al pubblico chiedendo di fare uno sforzo per accettarne la parziale rivoluzionarietà senza imbizzarirsi subito di fronte a quelli che possono sembrare paradossi logici inaccettabili (ovvero il nascere di un sentimento d’amore per una forma fantasmatica digitale che ha soltanto una voce e con cui non è possibile relazionarsi se non in forma virtuale).
Se nell’originale la voce di Samantha è di Scarlett Johansson (anche se il nome deriva dal fatto che l’attrice scelta originariamente per interpretare il difficile personaggio era Samantha Morton, poi rimpiazzata in corso d’opera), nella versione che il pubblico italiano vede nelle sale è quella di Micaela Ramazzotti che fa del proprio meglio per non far rimpiangere il timbro della collega americana, ingaggiando con lei un bel duello a distanza sulla base di chi sia dotata della voce più sensuale e calda e chi sia più brava a far perdere la testa a maschi delusi e feriti senza dover ricorrere alle curve della carne ma soltanto ai suoni usciti dalle proprie corde vocali.
Trama
In un futuro non troppo remoto un uomo che si guadagna da vivere scrivendo lettere d’amore per sconosciuti cerca di compensare le macerie della propria vita affettiva comprandosi un sistema operativo in grado di interagire con l’utente. Ma tra lui e la voce femminile che sceglie di avere come interlocutrice nasce un’inattesa storia d’amore destinata però a sfociare in una nuova e forse ancora più cocente delusione sentimentale.
di Redazione