L’eccezione alla regola

Ecco una commedia romantica, dove un amore contrastato alla fine prevedibilmente vince. Nella penombra però s’impone il dramma di un tiranno paranoico, il mitico Howard Hughes, che, moderno semidio, vuole giocare con i destini degli altri. L’eccezione alla regola racconta la storia d’amore tra una giovane aspirante attrice, Marla Mabrey, e un ambizioso autista-factotum, Frank Forbes, messo al fianco della ragazza per controllarla. I due si guardano e si studiano:  lei è una devota battista, ancora vergine, lui un fervente metodista per il quale il primo rapporto consumato impegna per la vita e si sente quindi obbligato a sposare la sua fidanzatina dei tempi del college. Tra i due nasce presto una reciproca attrazione che non solo si urta con i rispettivi sentimenti religiosi, ma soprattutto sfida il divieto del produttore a intrecciare storie da parte dei suoi dipendenti con le aspiranti attrici sotto contratto. Detto così, il soggetto è apparentemente intrigante.

L’ambiente è quello della Hollywood degli anni fine anni Cinquanta tra piscine, reginette di bellezza e tanto rock and roll, lo stesso degli esordi d’attore di Warren Beatty. Un quadro gradevole, ma indiscutibilmente superficiale. Il personaggio di Hughes non è neppure inedito sullo schermo. In The amazing Howard Hughes del 1977 è stato interpretato Tommy Lee Jones, e in The Aviator del 2004 da Leonardo Di Caprio. Pazienza: Warren Beatty assicura di aver invano coltivato il suo Hughes per tanti decenni – è del 1998 Bulworth – Il senatore, la  sua ultima regia. Purtroppo questo capitalista impavido, metafora leggendaria di un destino di distruzione dopo il trionfo, gli è sfuggito di mano trasformando la promessa commedia sentimentale in un biopic.

Howard Hughes, dunque. L’attore regista deborda con il suo ingombrante personaggio, ma non dovendo narrare, a differenza di Martin Scorsese, né le imprese dell’aviatore, né quelle del regista produttore, né quelle del petroliere, né quelle del seduttore, finisce per ritrarlo unicamente come un uomo consumato dalle sue ossessioni, prigioniero della sua nevrosi fino alla schizofrenia, capace di imprigionare e manipolare le vite altrui. Un piccolo spazio è riservato alla politica, e cioè a come il denaro e il culto del successo rendano possibile l’impossibile:  l’ascesa al vertice di un miliardario pazzo. La scelta (riduttiva) di Beatty è imprevedibilmente felice, consente una felice messa a fuoco del tycoon, anche se tanta attesa per interpretare Hughes finisce per tradire l’attore regista che a ottant’anni – ben portati in verità – si trova a interpretare il ruolo di un cinquantatreenne.

Nel suo miglior film come regista, Reds, Beatty aveva saputo amalgamare la tormentata e tumultuosa storia d’amore dei due protagonisti con i dibattiti ideologici legati alla nascita del socialismo libertario in America e addirittura con la Rivoluzione d’Ottobre. Qui, dirigendo il suo quinto film e firmando anche la sceneggiatura, non riesce ad assemblare la storia di un burattinaio e dei suoi burattini e sembra dirigere due film inopinatamente finiti sotto uno stesso titolo. La love story dell’autista e dell’attricetta, tra piccoli equivoci, bizzose gelosie è prolissa, poco vittima dei condizionamenti esterni dettati dall’orco, e stenta a tenere il giusto ritmo. Più convinta e convincente la storia di Hughes che, senza l’ambizione di addentrarsi nell’origine della nevrosi del personaggio (alcuni biografi ne attribuiscono la causa a una sifilide contratta da giovane), illustra il quotidiano di quest’uomo prigioniero di se stesso e carnefice degli altri. Lo Hughes di Beatty sprigiona magnetismo sia nel nascondere la propria immagine, letteralmente o dietro fitte tende o in un’accentuata penombra, sia nel centellinare la sua presenza. E’ un persecutore in costante lotta contro le proprie manie di persecuzione. Si potrebbe dire che riesce a stimolare la fascinazione più attraverso le assenze che le presenze sullo schermo.

La regia indugia in questo gioco adottando uno stile narrativo imperniato sul flashback e non immune dalla lezione di Orson Welles. Che sovente ha lavorato attorno a figure che coltivano con forza titanica il proprio mito: dal Kane di Quarto potere, all’Arkadin  di Rapporto confidenziale al Clay di Storia immortale, tre egocentrici che giocano con i destini altrui e che, al pari di Quinlan, dell’Infernale Quinlan, coltivano in solitudine la loro fallace onnipotenza.

Frank e Marla, i protagonisti un po’ dimenticati, si trovano coinvolti nel mondo schizofrenico di Hughes, vedono sfidati i loro valori, le loro vite vacillano, ma alla fine, nel disinteresse dello spettatore (che non ha certo ripagato al box office le attese di Beatty), si sottraggono al dominio del padre padrone. La loro love story mina l’intuizione di Beatty di raccontare la personalità di Hughes attraverso la sua corte perché i personaggi che gli si accostano, non solo Frank e Marla ma i tanti che generano una sequenza interminabile di camei (Annette Bening, Martin Sheen, Candice Bergen, Ed Harris, Alec Baldwin tra gli altri), non sono credibili. Il flirt dei ragazzi, improbabile e ridicolo, non si impadronisce dell’attenzione dello spettatore, non vive di vita autonoma. E zavorra il biopic.

Trama

Marla ama Frank. Lei è un’aspirante attrice, sotto contratto del nevrotico produttore Howard Hughes, lui è un ambizioso autista del tycoon. Ma il loro amore viola la legge del capo: nessun rapporto tra i propri dipendenti e le attricette che formano l’harem del sultano.


di Giorgio Rinaldi
Condividi