Lebanon
È possibile descrivere con assoluta precisione l’orrore della guerra? Si può raffigurare in modo sconvolgente la paura? Possono emergere sentimenti, angosce, amarezze, tensioni mettendo insieme quattro attori in uno spazio ristrettissimo? Certamente sì. L’ha dimostrato il film di Samuel Maoz intitolato Lebanon.
Si tratta di un’opera estremamente dolorosa, densa di una devastante inquietudine, come raramente si può vedere nel cinema contemporaneo. Il fatto è che le vicende narrate da Maoz evocano palesemente le disavventure militari vissute dallo stesso regista durante la prima Guerra del Libano nel 1982. Samuel Maoz era un carrista israeliano e a 20 anni si trovò al centro di una battaglia sanguinosa durante la quale gli capitò anche di uccidere. Questo evento ha segnato tutta la sua vita e solo dopo due decenni dai fatti ha trovato la forza di scrivere la sceneggiatura e di girare il film.
Ma a parte le questioni contenutistiche, l’elemento che fornisce grande forza a questo lungometraggio è il concept registico/espressivo che si trova alla base della sua realizzazione. Maoz ha infatti ricostruito in studio l’abitacolo di un carro armato. I quattro interpreti si muovo sempre in questo spazio microscopico, buio e sporco. Olio che cola dalle pareti, acqua per terra, sangue sulle mani e sugli strumenti, rumori fortissimi, vibrazioni terribili, fumo. Questo luogo minuscolo comprime e fa scontrare le psicologie dei personaggi, i quali esplodono in crisi di rabbia, di pianto, di angoscia. L’unico contatto con l’esterno è rappresentato da un “mirino” che permette di rimanere in relazione con la realtà, una realtà fatta di devastazione e morte.
Samuel Maoz si concentra soprattutto sull’uso del primo e del primissimo piano e insiste per gran parte del film nell’utilizzazione di una sorta di una “soggettiva” del carro armato, un occhio impazzito e tremebondo che scruta il mondo alla ricerca della salvezza. L’autore elabora, dunque, una struttura visiva claustrofobica, opprimente e tragicamente intollerabile. La macchina da presa isola gli occhi spiritati dei soldati israeliani, i quali non vengono dipinti come mostri cattivi ma come ragazzi giovanissimi impauriti, gettati in maniera irresponsabile nella mischia agghiacciante della guerra.
Lebanon è allo stesso tempo un film catartico, una seduta di psicoanalisi pubblica/privata e un’opera di denuncia. Samuel Maoz si è liberato evidentemente dai suoi personali fantasmi (un po’ come ha fatto Ari Folman con il suo Walzer con Bashir) e ha raccontato al mondo le atrocità della guerra da un punto di vista che pochi erano stati in grado di mostrare in precedenza.
Il film non risparmia accuse al sistema militare israeliano, tirando in ballo addirittura l’uso di armi illegali. Se pensiamo al fatto che tra gli enti promotori del film c’è l’Israel Film Fund, ovvero l’istituzione che gestisce i soldi pubblici destinati al sostegno del cinema israeliano, non possiamo che prendere atto della lezione di democrazia che con questo film viene impartita a tutti quei paesi occidentali/europei che spesso pontificano sul conflitto israelo/palestinese senza conoscere nulla né della società israeliana né di quella palestinese.
Anche se a livello critico non dovrebbe essere fatto, almeno per una volta vogliamo andare contro le regole della comunicazione giornalistico/culturale. Descriveremo la scena finale del film. Dopo una battaglia furibonda dentro il carro armato ci sono tre soldati israeliani distrutti dalla fatica e dal terrore, un altro soldato morto e un prigioniero siriano ferito ma vivo. Proprio quest’ultimo chiederà a un carrista israeliano di aiutarlo a urinare. I due militari nemici saranno così uniti inaspettatamente da un gesto privato, intimo, addirittura fisico. E per un attimo, solo per attimo, ogni barriera scomparirà. Un’utopia? Forse, ma è un’utopia cinematografica che almeno ci lascia qualche speranza.
*Per concessione della testata giornalistica Cultframe-Arti Visive (www.cultframe.com)
di Maurizio G. De Bonis