Le conseguenze dell’amore

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conseguenzeamoreTitta Di Girolamo si definisce “un uomo senza immaginazione”. E tale si manifesta. Si aggira solitario per l’albergo svizzero dove abita da otto anni, sempre con la stessa enigmatica ed annoiata espressione sul volto, sempre con una sigaretta accesa tra le dita. Di Girolamo vuole dimenticarsi e dimenticare: dimenticare che è un commercialista che alcuni anni prima ha fatto degli investimenti sbagliati per la mafia, perdendo diversi miliardi; dimenticare che la mafia lo ha graziato, imponendogli però di servirla; dimenticare che la sua vita ora può soltanto essere quella di un recluso di lusso, che, una volta la settimana, porta in banca milioni di dollari da riciclare; dimenticare che, ogni mercoledì mattina alle dieci in punto, da ventiquattro anni, fa uso di eroina, restando dipendente, più che della droga stessa, della scadenza settimanale.

L’esistenza di questo singolare personaggio procede, così, senza sussulti, fatta dagli stessi gesti, dalle stesse passeggiate, dalle stesse notti insonni, cui seguono ogni volta giorni sempre tristemente identici a se stessi.
Per lunga parte del film, Paolo Sorrentino opta per la quasi totale assenza di azione, cedendo il passo alla contemplazione, all’osservazione prolungata di una solitudine, a tratti snervante per la scelta di lunghi tempi morti. Nemmeno la classica gag di un uomo che urta un palo, distratto dalle rotondità di una bella donna, scompone la maschera di Titta Di Girolamo (un bravissimoToni Servillo), lo sguardo imprigionato nelle grosse lenti, le labbra sempre serrate, l’incedere sempre lento di chi non cammina, ma si trascina. Solo l’amore riesce finalmente a scuoterlo dall’indifferenza, ma occorre “non sottovalutare le conseguenze dell’amore”, come scrive, pensoso, lo stesso protagonista su un foglietto. In realtà per Di Girolamo, l’amore è pura astrazione, l’immagine traslata del suo bisogno di ribellarsi a un vivere che non è più tale; tuttavia questa strana forma d’amore trova il proprio oggetto, una materializzazione, nella figura, ambigua e misteriosa, della barista dell’hotel, un personaggio-metafora appena abbozzato, lasciato in sospeso, che serve narrativamente a “riattivare” il protagonista e a dare un’improvvisa accelerazione allo svolgimento del racconto. Titta Di Giolamo, spinto ora da nuovi sentimenti, tenta un folle riscatto esistenziale, in un convulso e inquietante finale dove tutto è mostrato e spiegato, dove un nuovo registro espressivo sembra voler aggiungere una nuova connotazione a un film tanto cerebrale e allusivo.

Con Le conseguenze dell’amore, Sorrentino, sebbene sia soltanto alla sua opera seconda, evidenzia uno stile molto personale e rigoroso, capace di evocare atmosfere e stati d’animo, anche se a tratti la regia sembra abbandonarsi al virtuosismo estetico e rischia di inciampare nell’autocompiacimento. Ma il messaggio arriva: una sconfitta è la sola vittoria possibile quando, al tavolo da gioco, le regole le fa l’avversario, un’ombra, che però si chiama mafia.

Stefania Meli

Note critiche
di Maurizio Fantoni Minnella

Un uomo distinto, seduto alla finestra di un lussuoso albergo di Lugano, (nel film la città è volutamente scorciata, al limite della stilizzazione), attende impaziente che qualcosa accada. Ma che cosa? La bella barista dell’albergo non riesce, suo malgrado, ad attirare la sua attenzione finchè non deciderà di affrontarlo direttamente.

Un inizio “durrenmattiano”, in certo senso mitteleuropeo per l’opera seconda del regista salernitano Paolo Sorrentino, che da più parti si vorrebbe rivelazione di un nuovo talento italiano. Ma le debolezze di sceneggiatura, assai più che di una regia geometricamente rigorosa che a suggestivi piani-sequenza (quello sull’uomo sdraiato che si inietta eroina nel braccio è davvero esemplare), alterna tuttavia sequenze che sembrano piuttosto inserti pubblicitari di una marca prestigiosa di automobili, ne compromettono inevitabilmente la coerenza narrativa. Il trattamento della figura femminile e del suo rapporto con l’uomo, ad esempio, la cui identità viene a poco a poco svelata o i bozzetti di contorno della figura del fratello o infine della coppia di anziani decaduti, avviene in una sequela di fatti che ne sminuiscono lo spessore psicologico.

L’unità spazio-temporale dell’albergo e la percezione che di essa ha il protagonista, nella seconda parte, acquistano un segno opposto alla prima: la volontà di spiazzare, per così dire, lo spettatore, spinge il regista a trasformare il mistero di un uomo solo, condannato per sua stessa scelta al silenzio e all’ambiguità morale, in un limbo popolato di mafiosi siciliani, dove il nostro uomo altri non è che la vittima di un meccanismo criminale da cui non uscirà vivo per troppo amore? Non lo crediamo, a giudicare da una narrazione che procede per accumulo di dati fittizi che servono piuttosto a giustificare l’epilogo (buonista) del film. Di amore se ne vede e sente davvero poco. L’incoerenza del protagonista, unita alla sostanziale nullità dei personaggi di contorno, vanificano una possibile lettura esistenziale e al tempo stesso introducono vere perplessità sulla riuscita dell’opera, senza tuttavia negare a Sorrentino l’onestà delle buone intenzioni.


di Stefania Meli
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