Le cinque variazioni (The Five Obstructions)

Creativa è un’esperienza che testimonia una sua originalità staccata dall’adesione mimetica al reale, scontato e abituale. Che dire di tutte le opere del più noto redattore del Dogma 95? Creative!
Darsi delle regole, dare al cinema delle regole… con l’irrefrenabile desiderio/necessità di poterle/doverle scientemente trasgredire in seguito. Così Lars Von Trier descrive quella che chiama la sua “nevrosi”, la lotta permanente tra controllo e caos di quel bambino “troppo” vivace che (non molti sanno), nel 1968, fu internato in un ospedale psichiatrico per le sue spiccate difficoltà a sottostare all’autorità, per la sua eccessiva libertà infantile (chi non fatica ad obbedire?).
Così, se appare allora fuori luogo parlare dello spesso indelicato e insistente topos “genio e follia”, non si può d’altronde evitare di constatare sul set quanto Lars, nelle sue sedute con Jørgen Leth, fatichi ad attenersi al setting, ossia dall’insieme delle condizioni formali e delle procedure pratiche entro cui si snoda il processo analitico. Perché Von Trier vuole psicanalizzare l’uomo, il regista, l’opera cinematografica e il cinema tutto. È l’uomo imperativo dell’uomo perfetto… perché lui le “obstructions” non riesce a seguirle, ma ne sa tracciare di meravigliose e maieutiche.
Le cinque variazioni è un accordo produttivo (la Zentropa di Lars) e co-registico (vd. ricostruzione finale) tra Leth e Von Trier: l’ultrasessantenne documentarista dovrà fare più remake del suo L’uomo perfetto (1967), attenendosi alle 5 variazioni che l’altro gli infliggerà, per un budget di 1,2 milioni di euro e un team collaudato (omaggio alle maestranze: nel film, si nominano il produttore Carsten, la montatrice Camilla e il direttore della fotografia Dan, genio del plexiglass nella scena del pranzo).
OBSTRUCTION 1 [12 frames, nessuna risposta, Cuba, nessun set] Dopo lo shock di doppiaggio dei colloqui tra i due registi, si segue Leth alle prese con quella che risulterà essere un’opera dallo stile pubblicitario accattivante e, proprio il caso di dirlo, scattante!
OBSTRUCTION 2 [un posto miserabile, non mostrarlo, Leth è l’uomo perfetto, la scena del pasto] Due teorie a confronto: Lars ritiene che un luogo socialmente devastato (Bombay) influenzi il regista e ne vuole sondare la “misura di contagio” in modo “visibile e quantificabile”; per Leth questa è una romanticheria che non sottostà ad alcuna legge fisico-fisiologica. E mentre il primo vuole eliminare il “distacco dai personaggi” del secondo, questi domanda un paese che almeno abbia un albergo!
OBSTRUCTION 3 [completa libertà oppure rigirare e a Bombay] Il maestro s’è offeso e incombe la punizione: l’assenza di regole! A Bruxelles, in uno schermo diviso a metà, una sensualissima donna perfetta incontra l’uomo perfetto nel protagonista maschile del primo film di Eric Rohmer, La ninfomane. Si è confinati tra gli interni in auto sulle cosce di lei e scuri esterni in cui vanno e vengono limousines.
OBSTRUCTION 4 [cartone animato] Ottima dimostrazione di ciò che può l’immaginazione… soprattutto per dei detrattori del cartoon come loro che tuttavia allegorizzano su “tartarughe che annaspano sulle schiena” e “cavoli nel tritatutto dopo pasticcini alla vaniglia”.
OBSTRUCTION 5 [essere accreditato come regista “senza fare un cazzo”, leggere un testo di Lars] Riprendendo la clausola del Dogma per cui l’autore non è citato nei titoli, “arrogante ma mosso da buone intenzioni”, Lars Von Trier ripercorre attraverso un “montaggio illustrativo” il backstage di questo documentario sul documentario, l’irriverente e ben congegnato progetto “Aiutiamo Jørgen Leth!”. La sua “missione pedagogica è fallita”. Egli stesso “cade disteso come è caduto disteso l’essere umano perfetto”. Ma su tutto, resta che “l’arte è un nascondiglio dove nascondersi!”. Spiegando l’applicazione del sogno da svegli in terapia per svelare l’inconscio represso attraverso l’immaginazione, la psicoanalista francese Nicole Fabre (Allo specchio dei sogni, 2002) accenna al “gioco del gatto col topo”, con un discorso che non è poi distante da quello che si potrebbe abbozzare per le dinamiche sviscerate dal patto tra i due di De fen benspænd. Anche i termini che usano per dialogare evocano la lotta e il pericolo della perdita del sé, della faccia (più per Leth). Così Lars si accanisce sulla preda tentando di scovare in fondo al cilindro nero della sua mente richieste impossibili; Jørgen si applica per sventare le intenzioni del “nemico” e solo strategie impreviste possono fargli mandare a monte i piani del gatto. La sottomissione dell’uno ai dettami dell’altro, la dimostrazione di poter superare i propri limiti: spesso si perde di vista chi è il gatto e chi il topo. Ma la Fabre chiarisce anche che rompere la cornice, infrangere le regole, passare all’atto (qualunque esso sia) in luogo dell’analisi, è una sconfitta, e l’uccisione del progetto analitico stesso. Così, quando nella variazione#2, Leth trasgredisce l’imposizione, il suo comportamento viene sanzionato dalle condizioni della variazione successiva… E così, quando Lars prende in mano il gioco, diventando il regista della variazione#5, la terapia deve concludersi e il piano disvelarsi in una ben orchestrata diagnosi sul cinema in cui i pensieri di transfert e i contro-transfert dei due registi si fanno eco. Sempre parafrasando un’affermazione psicoanalitica, la responsabilità di questi due documentaristi è di esser creduti come “padroni del reale”, mentre la loro unica paternità si situa nell’immaginario. Resta quindi solo un ultimo annotazione sull“analista analizzato”. Perché, nelle terapie, si estetizza in simboli e allegorie, ma si esprimono anche storie e vissuti. E, passi per questo manifesto meta-cinematografico, ma l’eccellente attenzione alla forma di tutte le sue opere non può all’infinito soppiantare quella per il contenuto. Non tutti condividono il suo: “Non m’importa quello che dicono i film, il tema che affrontano, la rivoluzione russa, il comunismo, il nazismo. Tutto questo non ha niente a che vedere con il cinema!”. C’è chi ancora spera al superamento del “bello per il bello”, attendendo con ansia il giorno in cui un maestro di riprese come lui tocchi il pensiero più della vista.
di Sanzia Milesi