L’avversario
Per oltre trent’anni un uomo dall’apparenza normale finge a genitori, moglie e figli di essere un valente medico specializzato in una tranquilla cittadina delle alpi francesi. In un momento di sconforto e di disperazione l’uomo li uccide tutti e dà fuoco alla casa nella speranza di perire con essa, tuttavia, miracolosamente si salva.
Dalla veridica testimonianza orale del superstite l’attrice regista Nicole Garcia trae spunto per un’acuta incursione nell’universo della normalità e delle apparenze, ma su un palcoscenico senza specchi e con una sola messinscena, ossia la famiglia, intesa come istituzione sacra e inviolabile e con un solo “attore” e il suo pubblico complice silenzioso. Attraverso uno sguardo filmico quasi antropologico il racconto trapassa dal semplice teorema della normalità al suo rovesciamento, in cui l’uomo normale si trasforma nel mostro quotidiano oppure nell’orco divoratore dei propri figli, ma più per vergogna e per troppo amore che per sincera crudeltà. In tal senso egli si distanzia dal Jack Torrence del kubrickiano Shining, proprio nell’esercizio stesso della crudeltà che in quest’ultimo è surrogato di un’impotenza intellettuale.
Come già riscontrammo nell’opera seconda del cineasta belga Laurent Cantet, A tempo pieno(2001), che narra una storia molto simile a questa, il film si compone essenzialmente di uno spazio bidimensionale costituito da pieni e vuoti, rispettivamente la casa, intesa come luogo familiare per eccellenza, inviolabile e ricco di segni, (nella tipologia stile “middle class” del villino indipendente) e all’opposto gli spazi anonimi delle strade, delle aree di sosta, dei motel, e infine di altri luoghi “anonimi” in cui si consuma il rituale della finzione (sedi di organismi internazionali) e in cui tuttavia il protagonista “agisce” imparando a dare al vuoto un nome ed un ordine.
In un analogo clima di psicodramma individuale, non vi è dubbio che la Garcia abbia scelto un’ipotesi di estremizzazione del regime di solitudine in cui vive ed agisce il suo personaggio, tanto più comune fra gli uomini quanto capace di assumere una valenza altamente simbolica, ossia il modello di una perfezione mancata, si badi bene, non diciamo di esistenza in quanto il film è di quell’esistenza, l’implicito detonatore. In altre parole la fiction del film e l’inganno lucidamente perpetrato dal buon padre di famiglia e onesto lavoratore, si annullano reciprocamente nella improvvisa e drammatica presa di distanza dell’uomo da se stesso e da coloro che ha ingannato.
Ancora un film, dunque, capace di individuare un’intima connessione tra apparenza e alienazione; negli interminabili vagabondaggi del protagonista (che nel film di Cantet sono più insistiti ed intensi), vi è implicito il senso di uno scacco, che è il significato stesso dell’esistenza.
La regia sensibile e sommessa della Garcia non dà tregua al personaggio, mostrandolo sin dalle prime inquadrature, alle prese con il proprio delitto già perfettamente compiuto in nome di una verità ristabilita che solo agli spettatori è dato di conoscere. E’ dunque all’osservatore estraneo e imparziale che sono rivolte le sue gesta, culminate nell’incendio della casa; al cinema, infine, il compito di dare forma, linguaggio e significato ad un processo mentale dissociativo che racchiude in sé, pur senza sottolineature retoriche, il dubbio che ci troviamo di fronte ad un tentativo di fuga a rovescio: non più la fuga dalla normalità, ma la ricerca della normalità per sfuggire ai propri fantasmi. Ne nasce infine una lezione morale di stampo simenoniano che non mancherà di incidere nella coscienza dello spettatore, anello mancante di un meccanismo autoreferenziale ossessivo che ha nel culto dell’immagine il suo epicentro.
di Maurizio Fantoni Minnella