L’attesa

Waiting for a miracle, inserita nella colonna sonora del film del debutto di Piero Messina, potrebbe essere la chiave migliore di lettura per un film avaro di emozioni. L’attesa del miracolo è per Giuseppe, un giovane che sappiamo mai giungerà ma che è presente in tutti i momenti sia attraverso SMS che ricordi od oggetti che gli appartengono. Appare nel finale come un fantasma desiderato e impossibile, durante il periodo pasquale sia in una vasca da bagno che in Chiesa per poi sparire definitivamente.

Presentato a Venezia, L’attesa dimostra come anche un’opera prima possa essere realizzata in maniera più che professionale. Ma questo esibire bravura nelle immagini, nelle ambientazioni, nella colonna sonora alla fine fa riflettere su Piero Messina, il quale ha collaborato con Paolo Sorrentino, prima come apprendista assistente alla regia non accreditato per This Must Be the Place (2011) ed in seguito tra gli assistenti per La grande bellezza (2013). Sicuramente ha assimilato molto da Sorrentino  ma, forse, ha compreso più l’estetica che non le capacità narrative.

Protagoniste sono due donne, ambedue francesi, che si conoscono in Sicilia a causa di un giovane di cui una è la fidanzata e l’altra la madre. La più anziana è bene inserita nella realtà isolana, vive decadenti fasti di una villa che ha visto tempi migliori, è stata la prima donna a divorziare creando scandalo ma aiutando anche la ex suocera a fare la stessa scelta. Ha come factotum un uomo devotissimo e, forse, suo innamorato che senza mai troppo apparire coordina la vita della sua datrice di lavoro.

E’ una realtà di provincia, provincia siciliana chiusa in se stessa e che nulla può realmente scalfire. La giovane giunge dalla Francia perché invitata dal figlio della donna. Molto bella, con voglia di vivere, si trova un po’ oppressa in quella realtà. Oltretutto, cerca di non sbagliare l’approccio con quella che potrebbe divenire sua suocera. Come trasgressione si concede solo un bagno in un laghetto, lontana da occhi indiscreti.

A un certo punto gli incontri tra le due donne saranno sempre meno formali, nascerà quasi un’amicizia: di sicuro, condivideranno una realtà che farà soffrire entrambe.

Nelle prime scene, Messina dipinge con poche pennellate la realtà della Sicilia che lui conosce benissimo essendo nato a  Caltagirone. Gli specchi, le finestre coperte dal factotum con drappi neri, la presenza di tante persone vestite di scuro che porgono le condoglianze. Queste immagini, belle e intime, fanno sperare in uno sviluppo più dinamico della vicenda. Invece, la scelta della sceneggiatura è di far vivere intensamente il dolore, di raccontarlo con l’assenza di una vera drammaticità ma presente come ossessione.

Le immagini, sempre perfette e studiate in maniera maniacale, sono gli elementi del modo preferito di raccontare di un autore che sembra voler ostentare tutta la sua bravura esponendola in maniera soffocante. Movimento di macchina lento, le frasche degli olivi che sommessamente si piegano al volere del vento, luci che donano naturalezza e, spesso, dolore.

Ispirato, solo ispirato, al dramma La vita che ti diedi di Luigi Pirandello messa in scena nel 1923 scritto pensando ad Eleonora Duse che non la interpretò, ebbe scarso successo tanto da essere riproposta solo passati venti anni da una brava Paola Borboni. Quindi, la sceneggiatura a quattro mani ha già fondamenta abbastanza fragili.

Il problema fondamentale del film è la poca credibilità di quanto raccontato. Pure accettando che le due donne vogliano credere a una verità che una sa e l’altra intuisce essere falsa, troppi sono gli elementi illogici.

Juliette Binoche, pur avendo già lavorato in Italia sia nel film che le ha donato l’Oscar Il paziente inglese (The English Patient, 1996) di Anthony Minghella che in Copia conforme (Copie conforme, 2008) di Abbas Kiarostami, non era stata mai diretta da un italiano e non conosceva altro, cinematograficamente parlando, se non la Toscana.

L’impatto con la Sicilia è stato più che positivo. Con una recitazione sempre equilibrata fatta più delle espressioni del volto che non dei dialoghi, dona spessore a una figura tanto importante quanto non felicemente tratteggiata dagli sceneggiatori.

La venticinquenne Lou de Laâge, nata come modella trasformatasi in attrice televisiva e teatrale, solo un paio di interessanti film interpretati quali la gradevole commedia Benvenuti a Saint-Tropez (Des gens qui s’embrassent, 2013) di Danièle Thompson e il drammatico Respire (2014) di Mélanie Laurent, non ha complessi nei confronti della esperta collega e riesce a reggere perfettamente il confronto. Bella, brava rende interessante questa ex fidanzata, ancora profondamente innamorata, che fa un viaggio verso l’ignoto siciliano solo con la speranza di riconquistare il suo uomo a cui rivolge accorati SMS chiedendo cosa debba fare per essere perdonata.

Nell’ombra, non per questo invisibile, il romano Giorgio Colangeli che ha pochissime battute, un numero limitato di scene ma che tratteggia con bravura l’uomo forse innamorato della Binoche che l’aiuta in tutto.

TRAMA

Tra i grandi saloni di un’antica villa dai passati fulgori, vive donna francese che ha appena subito un lutto inaccettabile. E’ sola in questo silenzio interrotto a tratti dalla presenza discreta del factotum. Tutto cambia quando, non attesa, giunge ragazza che dice di essere la fidanzata di Giuseppe, il figlio della signora che la ha invitata in Sicilia per trascorre insieme qualche giorno di vacanza. Giuseppe non c’è, ma le sue cose sono tutte lì, nella sua stanza. Presto, molto presto sarà di ritorno, così dice la madre non riuscendo a rivelare una verità per lei impronunciabile.


di Redazione
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