Last Days

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gus_van_sant-last_daysAngoscia, solitudine, disperazione, incomunicabilità: sono queste le sensazioni, opprimenti e claustrofobiche, che il film di Gus Van Sant sugli ultimi giorni di Kurt Cobain comunica a chi guarda.
Il tutto è reso ulteriormente pesante, dal punto di vista emotivo, dalla scelta di fondo del regista: Van Sant non mostra, o cerca, spiegazioni di alcun tipo alla sofferenza autistica del suo personaggio, bensì decide di seguirne rigorosamente a distanza i movimenti quotidiani, ripetitivi e insensati.

Non c’è un “prima”: non sappiamo cosa sia accaduto a Blake (Michael Pitt) e perché la sua vita si sia ridotta ad una fuga continua, da tutto, da tutti, soprattutto da sé. Last Days registra in maniera spietata e distaccata, con uno sguardo quasi da entomologo, i vani tentativi del protagonista di contrastare l’istinto di morte che lo abita. Vediamo, così, Blake, nonostante tutto, prepararsi il cibo giornaliero, provare a rispondere alle richieste fuori luogo di un venditore di pubblicità o urlare il suo dolore in canzoni dilaniate quanto lui.

Van Sant realizza un’opera che è tutt’uno con il suo oggetto: gelida, muta, rappresa, impenetrabile, come è, ormai, l’esistenza di Blake. Cosa si agiti nell’anima della rockstar di successo non è dato sapere: lo spettatore può soltanto assistere al suo trascinarsi di giorno in giorno. Blake è, qui, come nella tragica realtà, soltanto un corpo esposto agli occhi di tutti: una sorta di vittima sacrificale. Michael Pitt, irritante in The Dreamers di Bertolucci, si rivela, in questo caso, perfettamente a suo agio nell’incarnare, letteralmente, un ragazzo che cresce e si muove nel nulla.
Il risultato complessivo è un film crudo e tutt’altro che indulgente, un film in cui il silenzio grida più di tante parole.


di Mariella Cruciani
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