La zona d’interesse
Le recensioni di Giampiero Frasca e Franco La Magna, seguite dalla rassegna stampa a cura di Simone Soranna riguardo a La zona d'interesse, di Jonathan Glazer, Film della Critica per l'SNCCI.
La zona d’interesse, di Jonathan Glazer, distribuito da I Wonder Pictures, è stato designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani – SNCCI con la seguente motivazione:
«Il dispositivo con cui Jonathan Glazer racconta la fredda quotidianità della famiglia di un gerarca nazista, che vive a due passi da Auschwitz durante il conflitto mondiale, tiene insieme suggestioni da arte concettuale contemporanea con il linguaggio oscuro e inquietante che il regista sviluppa da sempre. Il museo degli orrori del ‘900 pulsa sotto la rigida geometria delle immagini attraverso le suggestioni sonore, gli inserti subliminali, le visioni dal futuro che è poi l’incubo ritornante delle guerre del nostro presente».
La recensione
di Giampiero Frasca
La zona d’interesse, compatibilmente con un filone poco frequentato dalla tradizione sulla Shoah, persegue una ferrea morale dello sguardo. Se per Godard anche solo una carrellata sarebbe diventata una questione etica e per Rivette la sottolineatura su Emmanuelle Riva folgorata sulla rete di recinzione in Kapo di Pontecorvo era addirittura abietta, Jonathan Glazer si pone decisamente dalla parte giusta di quella discriminante virtuosa di cui parlò anche Serge Daney e relega in un fuoricampo assoluto l’orrore che risiede al di là di un muro, trasformando con una certa dose di surrealtà una tragedia storica e umana in un ameno quadretto di quotidianità piccolo borghese.
Ligio anche al precetto adorniano («Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie»), Glazer segue però una via diversa rispetto all’irrappresentabilità praticata da Lanzmann in Shoah e soprattutto da Nemes ne Il figlio di Saul. In quest’ultimo, in particolare, estrapolando una vicenda tra le tante possibili all’interno di un’umanità immersa nella nullificazione dovuta al Caos, si compiva un percorso teoretico, attento a realizzare una nuova via di espressione possibile per significare l’Olocausto. La zona d’interesse, invece, ben oltre quella banalità del male sempre evocata in questi casi, pone il suo pubblico in una posizione paradossale, quella di essere pienamente partecipe di una visione parziale, delimitata, supposta perché conosciuta, ma negata allo sguardo, come se fosse una cattiva coscienza perennemente incombente e illusoriamente rimossa. Una visione che si origina dal vuoto, dall’impossibilità espressiva di rappresentare il Male per renderlo comprensibile, nella consapevolezza di una cecità della raffigurazione a cui alludono gli oltre due minuti introduttivi di schermo nero, che paiono insostenibili perché insoliti e apparentemente ingiustificati, oltre che lacerati dalle note dissonanti di Mica Levi.
La percezione proposta dal film tratto in modo piuttosto libero dal romanzo omonimo di Martin Amis è scissa, divisa lungo un doppio canale in cui la visione è l’aspetto più ovvio, mentre il sonoro è una nube che copre perennemente con la sua ombra oscura l’idillico quadretto allestito al di qua del muro. Il legame tra i due elementi è inscindibile, perché solo la loro reciprocità origina quella sensazione di armonia tossica o di inquietudine trascurata che rappresenta l’intero fondamento dell’operazione e che fa propendere per l’una o per l’altra in funzione della prospettiva adottata, come nello spazio negativo di Rubin. Da un lato, le immagini di Glazer blandiscono il senso estetico, come da sempre nella sua carriera di video-maker; in qualche modo appaiono seducenti, con i loro colori pastosi, caldi, il contrasto verde del giardino/azzurro del cielo e il conforto dei beige e dei marroni screziati di bianco degli interni, i piani simmetrici accuratamente studiati. Dall’altro, la metonimia di un dramma confinato in un fuoricampo persistente ma tutt’altro che irriducibile, impossibile da negare, perché vivido nella memoria storica, fatto di filo spinato, torrette di guardia, fumo, è alimentato dal grande lavoro sul sound design di Johnnie Burn, capace di rendere plausibile attraverso gli spari, il tappeto di urla e il basso continuo del crematorio l’autentico e opprimente rumore di un omicidio di massa.
Glazer, all’interno dell’ambito domestico del comandante di Auschwitz Rudolf Höss, allestisce uno spazio della rappresentazione, nel quale si realizza un teatrino di relazioni quotidiane, gesti minimi, ambizioni, frustrazioni e tentativi di conservare i propri privilegi. Lo mette in scena secondo una logica paradossale: si vive a pochi passi dalla morte, affiancati in un parallelismo di cui ci si nutre, vampirizzandolo, come illustra splendidamente la breve scena in cui un prigioniero di corvée nell’orto del comandante, posizionato accanto al muro del campo posto longitudinalmente a tagliare in due l’inquadratura, fertilizza il terreno con le ceneri provenienti dal crematorio. Il Male e l’orrore sono oltre il muro, ignorati dalla famiglia Höss che conosce perfettamente le regole della recita quotidiana, che si rinnova di giorno in giorno, una stagione dopo l’altra. La tragedia si palesa solo davanti a chi le regole della finzione non le conosce, come la suocera di Höss, sul cui vetro della stanza da letto si staglia il riflesso di un lugubre rogo notturno.
La morale dello sguardo di Glazer è sempre autoriale, mai interna, e mai dovuta ai personaggi, che non vedono, ma si limitano a muoversi: non c’è una sola soggettiva in tutto il film, anche quando è sollecitata apertamente forzando i margini del quadro in una consequenzialità logica che non viene mai davvero soddisfatta. I personaggi sono soltanto pedine manovrate dentro uno scenario dilatato dall’uso del grandangolo, che ambisce a gestire la pienezza dello spazio a disposizione ma da cui si è inevitabilmente circoscritti, schiacciati, limitati. Costretti in una duplice messa in scena, nel film e del film, che metaforizza l’illusione di un vasto orizzonte intorno a sé mentre cerca di normalizzare la catastrofe.
La recensione
di Franco La Magna
La rappresentazione del male assoluto attraverso il reale “pedinamento” della banalità quotidiana di una normalissima famiglia “ariana”, che vive ignorando l’orrore dello sterminio nel contiguo campo di Auschwitz, diviso dalla paradisiaca, agreste, residenza da un alto muro grigio, dietro il quale si alzano sinistri i fumi dei corpi degli ebrei inceneriti, si ode il ringhiare dei dobermann dei kapò e le urla delle vittime. E la notte si scorge dietro le tende chiuse delle camere da letto il baluginare sinistro dei forni crematori.
Schivando ogni drammatizzazione e depurando il romanzo di Martin Amis da ogni atrocità per realizzare un “horror del subconscio”, Jonathan Glazer (regista inglese, già più volte candidato all’Oscar ) ha trovato in La zona d’interesse (anch’esso candidato all’Oscar come Miglior film internazionale, nonché a quella principale di Miglior Film) la cifra visiva d’una nuova, agghiacciante, mostrazione dell’olocausto, costruendo soprattutto attraverso una terrificante sinfonia di suoni spaventosi, frutto di ore di registrazioni pazientemente raccolti e selezionati con il suo sound designer, una originale renovatio della più grande tragedia del secolo breve.
Magistrale evocazione con immagini della normalità associata a suoni paurosi, fin dal titolo il film di Glazer – che prolungandosi a dismisura sullo schermo leggermente scompare come inghiottito da un pozzo nero – prepara lo spettatore all’indicibile orrore che normalissimi esseri umani (non mostri), nella totale indifferenza, sono stati capaci di compiere. Sicché nelle immagini finali, spiegate dallo stesso Glazer: “Quell’uomo (il comandante-carnefice del campo di sterminio di Auschwitz, n.d.a.) che vomita non è un personaggio, è l’orrore reale. La cenere delle persone che ha aiutato a uccidere è dentro di lui”.
E ancora oggi, a quasi ottant’anni di distanza, incredibilmente ci si interroga su come sia stato possibile che tutto questo sia potuto accadere, dimenticando il dramma rinnovato delle decine di conflitti e dei massacri che ogni giorno si compiono nel nostro pianeta insanguinato.
Una breve rassegna della stampa italiana sul film
(a cura di Simone Soranna)
Sin dalla sua presentazione al Festival di Cannes, La zona d’interesse è stato accolto piuttosto positivamente dalla stampa italiana, che lo ha definito uno dei titoli più interessanti dell’intera edizione del Festival.
Federico Pontiggia, su La rivista del Cinematografo, descrive così la pellicola di Glazer: «nove anni dopo il divisivo Under the Skin, il regista britannico Jonathan Glazer consegna La zona d’interesse, liberamente ispirato al romanzo omonimo di Martin Amis, in Concorso al 76. Festival di Cannes. Il dramma al contempo straniato e ponderato, agghiacciante e serafico inquadra il famigerato comandante di Auschwitz, Rudolf Höss, e la moglie Hedwig, che vivono con i figli e la servitù in una villetta con giardino ai margini del campo: si capisce, quella vicinanza, meglio, contiguità è la sineddoche spaziale dell’aberrazione dell’Olocausto, ma appunto viene data senza colpo ferire, senza Soluzione (finale) di continuità».
Giulio Sangiorgio invece, sulle pagine di FilmTV, pone l’attenzione sul confronto con il romanzo di partenza, affermando che «quello di Glazer (l’unico regista, oggi, a saper guardare a Kubrick) non è un adattamento del libro di Martin Amis. È un pagare i diritti a un’idea. Ovvero giustapporre una commedia SS all’oscenità del genocidio. Ci sono tre storie nel romanzo. Tre voci. Due ufficiali hitleriani, un Sonderkommando. Lui fa sintesi delle prime due. E cancella l’ultima, che rientra in forma di documento. Non detto, ma scritto, in calce, via sottotitoli. Perché non si può distinguere un urlo».
Sergio Sozzo, al contrario, intraprende un’analisi mettendo in relazione il film con il cortometraggio appena precedente diretto dal regista. Scrive così il critico su Sentieri Selvaggi: «How are you? From ten to one, from ten to zero ripeteva incessante la voce off nel corto precedente di Jonathan Glazer, Strasbourg 1518, punto di partenza forse cruciale per orientarsi anche in questo La zona d’interesse. Il nuovo film del cineasta sembra l’esatto rovescio di quell’opera breve realizzata in pieno lockdown nel 2020, coreografia danzante ispirata ad un episodio di isteria collettiva avvenuto appunto a Strasburgo nel 16esimo secolo, confluito in un folle ballo che coinvolse l’intera comunità».
Enrico Azzano rincara la dose trovando il film perfettamente in linea con la poetica enigmatica del suo autore. Afferma infatti su Quinlan: «Non è facilmente decifrabile Jonathan Glazer, regista dai progetti intellettualmente ambiziosi, non sempre a fuoco. Ad esempio, è suo Under the Skin, diventato cult o scult a seconda delle posizioni critiche. Oppure Birth – Io sono Sean, altro titolo molto discusso a suo tempo. Insomma, non lascia indifferenti il suo cinema, un po’ come La zona d’interesse, presentato in concorso sulla Croisette. Tratto dal romanzo omonimo di Martin Amis, qui ridotto all’osso, l’ultimo film di Glazer è una geometrica, asettica, glaciale riflessione sull’Olocausto, sulla banalità del male e persino sulla sua innocenza».
Sull’analisi formale si sofferma anche la recensione di Cineforum, a cura di Alessandro Uccelli, il quale dichiara che «dopo una sorta di ouverture a schermo nero, con la prima tessitura sonora cacofonica di Mica Levi, quasi il corrispettivo di una camera d’attesa perturbante, di uno spazio per la deprivazione sensoriale (addio comfort zone), ma anche per certi versi l’anticipazione dei suoni disarticolati e disarmonici che di lì a poco saranno un continuum che origina dal fondo dell’inquadratura, Glazer prende spunto dalla narrazione anticlimatica di Amis, e affida allo schermo, per piccoli accumuli, qualcosa che si connette al desiderio dei suoi protagonisti».
di Giampiero Frasca