La versione di Barney

Ai tradimenti della buona letteratura operati dal cinema, abbiamo fatto ormai il callo. Certo, il cinema  ha le sue proprie leggi e i suoi propri tempi che mal si conciliano con un “flusso di coscienza”  ininterrotto di circa 500 pagine -che mescola spregiudicatamente finzione e autobiografia- quale è “La versione di Barney” (1997), il romanzo di maggior successo (almeno in Italia) dello scrittore canadese di origine ebrea Mordecai Richler (1931-2001). Come si sa, il romanzo originale, pubblicato da Adelphi in Italia nel 2000, divenne un  “caso letterario”, ma soprattutto giornalistico ed editoriale, rinfocolato ora dal gran battage che ha accompagnato la presentazione del film alla Mostra di Venezia lo scorso settembre e dall’uscita (per Bompiani) del  saggio “Sulle strade di Barney” del giornalista Christian Rocca. Altri hanno poi maliziosamente notato che la fortuna del libro in Italia deriva anche dalla istintiva simpatia che un personaggio come Barney Panofsky, così (almeno in superficie) cinico, edonista, auto-centrato, eppure maledettamente simpatico, suscita da noi…

I primi progetti di riduzione cinematografica nascono all’indomani dell’uscita del libro, tredici anni fa. Per tre volte, senza riuscirvi, lo stesso Richler (che era anche uno sceneggiatore cinematografico abbastanza quotato) provò a trarne uno script convincente. Oggi resta il suo nome  nei credits, però la produzione canadese (ma c’è anche la nostra Fandango) ha affidato scrittura e regia a due esperti di televisione come Michel Konyves e Richard J. Lewis (quest’ultimo noto e premiato soprattutto come regista, oltre che produttore e sceneggiatore, di  diverse annate della serie poliziesca CSI – Scena del crimine). Da qui, si spiegano a nostro avviso molte delle scelte narrative e stilistiche della  versione cinematografica. Dal  magma incandescente ed ellittico del racconto in prima persona del romanzo, Lewis e il suo sceneggiatore distillano i temi più appealing per un pubblico contemporaneo (e televisivo): adulterio, divorzio, sesso e vizi assortiti, sport (e pazienza se è l’hockey su ghiaccio,  sport nazionale canadese); assecondano poi il versante thriller della storia, ovvero l’incriminazione di Barney come omicida del suo vecchio amico di bisbocce giovanili Boogie. E si spiega forse anche la decisione di rendere il film più “attuale”, spostando in avanti  il tempo della storia: la prima parte del film trasporta le vicende dalla Parigi anni ’50 (dove Richler visse) alla Roma (per ovvie ragioni co-produttive) dei primi anni ’70, e così via sino alla sua lapide tombale su cui il film si chiude (vi si legge che Richler nasce nel 1944 e muore nel 2010…).

Eppure il film sembra piacere al pubblico, non solo quello festivaliero. E sicuramente piace di più a chi, non avendo letto il libro, può godersi senza remore e termini di paragone, la verve di due grandi attori: di Dustin Hoffmann, che da par suo colora di vitale rozzezza e sincera sollecitudine la figura paterna dell’ex poliziotto Izzy; e soprattutto quella di Paul Giamatti (Barney), che trova finalmente dopo tanta gavetta un ruolo da protagonista in un film da box office e anche un Golden Globe come miglior attore brillante (ma, quasi a  dispetto della sceneggiatura,   riesce a restituire in più occasioni al personaggio sfumature drammatiche). Quanto al cast femminile, convincono, pur nei limiti dei rispettivi ruoli di prima e seconda moglie Panofsky, sia  Rachelle Lefevre che Minnie Driver; quanto a Miriam, la terza e ben più importante moglie (e madre), Rosamund Pike (apprezzata, di recente, tanto in “An Education” che in “We want sex”) fa da giusto contraltare, algida e raffinata quanto basta, al suo bulimico, incorreggibile, ma anche incontenibile e appassionato corteggiatore e infine marito.

Dal repertorio infinito di caustiche e fulminanti battute del romanzo, Lewis e Konyves estraggono quelle più facili e vi aggiungono “gag” comiche di sicuro effetto (come lo scivolone di Barney mentre insegue il treno che lo separa -temporaneamente- da Miriam).  E lo stesso accade con il personaggio di Dustin Hoffmann. Al cast  è dunque affidato il compito di sostenere un film che nonostante alcune felici sequenze, come quella del secondo matrimonio di Barney,  perde spesso il ritmo, indulgendo, specie nella parte più importante, quella della relazione con Miriam, in stereotipi familiari, prima di avviarsi verso un finale decisamente un pò patetico.

Il punto è che –volutamente, per quanto detto-  al  protagonista  Barney mancano  l’amarezza, il lucido disincanto sul mondo, la vena tragicomica  ma  al tempo stesso la rabbia e l’invettiva -anche rispetto ai fatti sociali e politici- della cultura  e della letteratura ebraica dell’esilio, da Philip Roth a Saul Bellow (nonostante Miriam legga proprio “Herzog” di Bellow, mentre nell’originale legge “Goodbye, Columbus”, la prima raccolta di racconti Roth). Manca  la   “voce narrante” di un uomo e di uno scrittore  di quasi settant’anni che fa i conti con la vita.  Manca la sua sterminata cultura, mentre grande risalto viene dato a quel Barney che dirige con piglio macchiettistico gli improbabili serial televisivi della sua “Totally Unnecessary Productions”.

In ruoli-cameo compaiono peraltro le maggiori glorie del cinema canadese contemporaneo, da Denys Arcand a Atom Egoyan e a David Cronenberg. I quali, forse, di Barney, ci avrebbero dato una più acre e memorabile “versione”.


di Sergio Di Giorgi
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