La trattativa

Di che cosa si parla esattamente quando si parla della cosiddetta «trattativa Stato–Mafia»? Da qualche anno a questa parte è un’espressione ricorrente che infarcisce servizi di telegiornali bi–partisan, alimenta inchieste giornalistiche più o meno animate da vocazione alla denuncia e fa da sfondo socio–culturale «alto» alla logorrea scomposta dei troppi talk show televisivi in cui ci si scanna anche per molto meno.

Cosa sia veramente non è però chiarissimo alla maggior parte di coloro che sono la platea immaginaria di ciascuna delle varie forme di intrattenimento mediatico che l’ha trasformata in uno dei pilastri della propria scommessa sugli indici d’ascolto. Ed è forse per chiarire una volta per tutta la natura stessa di questa fantomatica «trattativa» che Sabina Guzzanti ha deciso di dedicare anni di lavoro e di ricerca per dare una risposta definitiva a quanti avrebbero sempre voluto sapere che cosa si nasconda dietro uno dei tanti, troppi misteri all’italiana, ma non lo hanno mai potuto sapere proprio per la natura stessa di ciò che questo patto scellerato avrebbe dovuto e voluto celare.

Presentato fuori concorso — e accolto con calore — all’ultima mostra veneziana, questo prodotto incatalogabile a livello di generi è infatti un tentativo di far capire in maniera chiara e vagamente didascalica che cosa si intenda con l’ambigua espressione «trattativa Stato–Mafia» e quali siano state, negli ultimi e tribolati trent’anni di storia del paese, le profonde implicazioni sociali, politiche, culturali ed etiche di cui sarebbe stato responsabile questo amorale patteggiamento tra lo Stato e la principale tra le organizzazioni criminali operanti sul nostro territorio.

Come il film (?) della Guzzanti mette in chiaro nel corso dei 104 minuti in cui alterna documenti reali a ricostruzioni fittizie realizzate in un teatro di posa, materiali di repertorio ripescati un po’ ovunque, interviste realizzate ad hoc, elementi presi di peso dal mondo del docu–fiction di stampo anglosassone, e perfino pannelli grafici da lezione accademica, la cosiddetta «trattativa Stato–Mafia» sarebbe stato il patto stretto dallo Sato con la Mafia per far sì che la lunga stagione del sangue e delle bombe (iniziata alla fine degli anni ’60 a Brescia e a Milano e culminata nelle stragi di Capaci e di Via D’Amelio) terminasse una volta per tutte riportando il paese a una normalizzazione necessaria per il ritorno al vivere civile.

Il tutto condito dalla presenza di quelli che per vent’anni furono gli attori principali di tale «trattativa». E cioè capi bastone del calibro di Riina e Provenzano, ambigue figure quali Vito Ciancimino e il figlio, diverse generazioni di pentiti più o meno (in)affidabili, integerrimi rappresentanti della Legge quali Caselli o il procuratore del ROS Mori ma anche politici di lungo corso (a partire da Dell’Utri per arrivare fino a Berlusconi, passando però per l’ex ministro Mancino e addirittura Giorgio Napolitano, che presto sarà chiamato a deporre sulla vicenda dopo un lungo tiramolla col quale si è tentato di evitarne il coinvolgimento diretto come teste).

L’intento di Sabina Guzzanti era più che nobile. Animata come sempre dal duplice dàimon della satira combinata alla vocazione alla denuncia (che in Draquila aveva dato forse il suo risultato più compiuto e maturo), anche qui la corrosiva cabarettista e regista ha cercato di affrontare il problema con lo stesso approccio bifronte che le ha permesso in passato di nobilitare il genere del documentario di stampo televisivo travestito da film di indignazione civile.

Ma questa volta i risultati sono meno efficaci che in altre prove di anni precedenti. Fin dall’inizio Guzzanti fa una scelta di campo che spiazza lo spettatore, mostrando di scegliere un approccio che di fatto e di principio nega la natura stessa del documentario di denuncia fondato su laboriose indagini d’archivio e su inattaccabili fonti primarie a sostegno delle affermazioni fatte nel corso della pellicola: guardando in camera all’interno di un teatro di posa, Guzzanti e un gruppo di «lavoratori dello spettacolo» dichiarano apertamente di avere intenzione di mettere in scena alcuni dei momenti salienti della cosiddetta trattativa tra lo Stato italiano e Cosa Nostra al fine di mettere a tacere la voce del tritolo e ridare pace al paese.

Sin dalla prima scena lo spettatore viene cioè messo di fronte a un’aporia di fondo che diventa poi la cifra formale dell’intera operazione: se cioè da una parte gli viene detto (e il titolo stesso è una scelta di campo che non ammette repliche circa la veridicità dei fatti ricostruiti) che l’intento del film è quello di ricostruire i momenti salienti della «trattativa» ammettendone di fatto l’esistenza, dall’altro si priva immediatamente di autorevolezza l’essenza di tale ricostruzione perché a farla sono degli attori che la mettono in scena come se fosse mero teatro.

E per chi guarda è infatti difficile stabilire una netta distinzione tra il peso documentario che le varie scenette (a volte fin troppo elementari nel loro intento didascalico) si vorrebbe avessero come rappresentazioni istruttive di quanto è accaduto e quello che è invece la loro reale credibilità, minata com’è nell’intimo dalla loro stessa natura di piccoli spettacoli teatrali ma soprattutto dalla presenza di elementi di satira casereccia (Guzzanti che si esibisce nella sua celebre imitazione di Berlusconi accanto al Berlusconi vero a sua volta protagonista di spicco della vicenda) che vanificano in sede di principio la possibilità di recepire come autentici i vari siparietti allestiti in spogli teatri di posa.

Una confusione questa che regna un po’ ovunque in giro per il film. Soprattutto per il continuo rimbalzare della sceneggiatura da un’intervista vera a una fittizia, da un moncone di documentario alla sua rievocazione teatrale, da celebri spezzoni di TV ormai entrati nella leggenda a commenti fuori scena troppo sbilanciati in una sola direzione per poter garantire credibilità e fondatezza all’atto stesso della ricostruzione.

A ulteriore conferma di quanto sia difficile prendere sul serio l’intera operazione, va detto che è ancora più ostico catalogare La trattativa all’interno di un qualche plausibile genere cinematografico: nato come documentario di denuncia di un qualcosa che regista e sceneggiatrice dà per scontato essere insindacabilmente vero sin dalle prime battute (al punto da vararne una ricostruzione teatrale affidata a degli attori), La trattativa rimbalza per tutta la sua durata da un genere all’altro senza lasciar mai capire se sia un prodotto televisivo o un autentico documentario destinato alla fruizione nelle sale cinematografiche.

Ma soprattutto non è mai chiaro se, una volta risolta quell’incertezza fatale di fondo circa il mezzo di destinazione ultimo, sia un documentario con spezzoni di fiction, un docu–drama come se ne vedono in certe ricostruzioni in TV, una puntata di show a metà tra lo stile di «Servizio pubblico» e quello di «Che tempo che fa», o ancora uno spettacolo teatrale che vuole fare il verso al film a tesi. O se non sia addirittura un ardito ma infelice mix di tutte queste componenti difficili da combinare insieme in un qualcosa che alla fine quagli senza mostrare ovunque crepe strutturali e formali.

Ed è così che, pur con tutte le buone intenzioni di partenza, alla fine La trattativa disorienta eccessivamente lo spettatore allontanandolo in maniera irreparabile da quello che era forse il suo scopo primario. E cioè liberare un grido di dolore indignato per una ferita inferta a un intero paese dai suoi stessi governati e mai rimarginatasi, là dove invece si finisce con l’assistere soltanto a un’involontaria delegittimazione delle tesi sostenute per colpa della forma in cui queste ultime vengono presentate

Trama

Per capire veramente di che cosa si parli quando ci si riferisce alla cosiddetta «trattativa Stato–Mafia», un gruppo di attori ne mette in scena gli episodi più rilevanti dando vita a mafiosi, agenti dei servizi segreti deviati, alti ufficiali dell’esercito, magistrati, politici di alto profilo, vittime e carnefici ma anche molte persone oneste e coraggiose coinvolte in uno dei tanti misteri della storia d’Italia degli ultimi trent’anni.


di Redazione
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