La tranquillità

Francesco Grieco sul tv-movie di Krzysztof Kieślowski "La tranquillità", proiettato al Bergamo Film Meeting nell'omaggio a Jerzy Stuhr.

"Spokój" (Krzysztof Kieślowski)

Saranno stati in molti a scoprire con sorpresa, nel corso dell’ultima edizione del Bergamo Film Meeting, il valore non trascurabile di alcuni dei primi film di Krzysztof Kieślowski, in particolare La tranquillità, La cicatrice e Il cineamatore, proiettati insieme al Decalogo 10 e a Tre colori – Film bianco nell’ambito della retrospettiva omaggio a Jerzy Stuhr.

Soffermiamoci sul primo dei film elencati, quello Spokój con cui Kieślowski già dimostra che si può fare del grande cinema anche lavorando per la tv. Si tratta, infatti, di una produzione televisiva, proprio come sarà peraltro lo stesso Decalogo, ed è un lungometraggio in cui il talento attoriale di Stuhr si manifesta in tutta la sua cristallina limpidezza. Kieślowski è un autore che gioca con i piani temporali, mescola le linee narrative tanto quanto ama mostrare i segni nella realtà quotidiana di un “oltre”, una dimensione divergente e inafferrabile, che si potrebbe definire metafisica, dalla quale si genera il destino, spesso cinico e baro, dei personaggi.

La tranquillità, giratoin 16 millimetri e in 4:3, è ben lontano, anche formalmente, dalla complessità di quelle che saranno universalmente considerate le opere “maggiori” di Kieślowski. Però, appunto, non è un film né lineare né tradizionale: non passa molto tempo dall’incipit che, partendo dagli interni spogli e tristi di un penitenziario, ci ritroviamo invece catapultati in un flashback misterioso, retto dal protagonista Gralak, la stessa analessi visiva ripetuta ossessivamente anche in una sequenza successiva, quella del viaggio in treno. È il ricordo dell’immagine di una ragazza, la figlia di un fattore, così gentile con Gralak, nei giorni in cui lui lavorava nelle vicinanze insieme ad altri detenuti, da offrirgli dell’acqua e del cibo. Gralak dichiara ai suoi compagni di cella che il suo sogno, quando uscirà dal carcere, è proprio di raggiungere quella tranquillità che dà il titolo al film, la parola che Gralak, conciato per le feste, ripeterà a se stesso nel finale. Inutile specificare che non troverà nessuna tranquillità.

Gralak vuole rifarsi una vita, dopo tre anni di prigione. Le sue aspirazioni, in una nazione che allora era ancora comunista, potevano essere definite spregiativamente piccolo-borghesi e individualiste: ottenere senza fretta una casa tutta sua, una famiglia, vivere nella pace di chi vuole evitare i conflitti, per indifferenza o per mitezza. In un film inevitabilmente politico, non fosse altro che per lo sfondo sociale in cui è ambientato, l’interesse principale di Kieślowski è però quello di rappresentare il conflitto interiore, la lacerazione profonda a cui il suo protagonista va incontro, tra due fuochi.

Dopo apparenti progressi iniziali – il lavoro nella regione della Slesia, la socializzazione con gli altri lavoratori, il matrimonio con Bozena, la giovane donna del flashback con cui Gralak trova una stabilità affettiva, avendo già interrotto i rapporti con la fidanzata precedente e con la proprietaria di casa che si era invaghita di lui – tutto va per il verso sbagliato, a partire da quando nel cantiere dove Gralak lavora si scopre un furto di cemento e mattoni. Gralak si ritrova così in una posizione scomoda: diventa l’uomo di fiducia del capomastro, ma finisce per perdere il rispetto dei colleghi, che lo guardano con sospetto, iniziano uno sciopero e gli affidano l’ingrato compito di comunicare al datore di lavoro, più o meno come farebbe un sindacalista, le loro richieste.

Bisogna pensare che di lì a pochi anni in Polonia proprio un sindacato autonomo cresciuto nei cantieri navali di Danzica, Solidarność, guadagnerà sempre più potere e il suo leader Lech Wałęsa sarà alla guida dell’intero Paese negli anni ’90. Ma evidentemente la situazione dei lavoratori polacchi era critica sin dal momento in cui Kieślowski iniziò le riprese della Tranquillità, nel 1976 (il film, considerato “scomodo” dal potere, per ragioni di censura sarà mostrato solo quattro anni più tardi).

Tornando a Gralak, i suoi tentativi di fare come gli consiglia la moglie, cioè di non immischiarsi, falliscono abbastanza miseramente. Invitato a cena dal capo del cantiere, Granak lo ascolta con costernazione mentre gli conferma ciò che uno dei compagni di lavoro aveva ipotizzato: l’unico che non sarà licenziato è proprio Granak. Con l’orgoglio nel cuore e la vodka nello stomaco, Granak protesta, urlando, e va via. Per la strada viene pestato a sangue come un traditore da cinque colleghi ed è allora che in flashback rivede i cavalli che, come un’allucinazione, apparivano sulla strada durante il viaggio che Granak aveva intrapreso per andare a ricomprare il materiale del cantiere, dopo il furto. Nel film sono proprio questi animali – inspiegabilmente le uniche immagini riconoscibili che trasmette il televisore rotto della pensione dei lavoratori dove Granak alloggia per un po’ – la prova che per Kieślowski l’appiattimento sul realismo puro e semplice non è una scelta stilistica percorribile: la realtà nasconde sempre qualcosa di ultraterreno e imperscrutabile, che a volte si palesa esplicitamente sotto sembianze quasi banali.


di Francesco Grieco
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