La tigre e la neve

Antiche rovine illuminate dalla luna. Tom Waits, al piano, che suona e canta con la sua voce meravigliosa ”non si può trattenere la primavera”. In platea, mischiati tra il pubblico, ecco evocati poeti grandi come Montale, Ungaretti, Borges e Yourcenar. E poi Roberto Benigni che irrompe e finalmente riesce a coronare il sogno di una vita. Insomma ci sarebbero tutti gli elementi per un folgorante inizio di film, e invece la prima sequenza diLa tigre e la neve è quasi agghiacciante per la sua bruttezza. Poi, per fortuna, il film migliora, ma la sensazione negativa resta e accompagna un po’ tutta la visione. Il motivo di fondo è che non basta parlare, fino allo sfinimento, di poesia per far emergere dalle immagini e dalle situazioni la poesia, né dire e ripetere che una cosa è bella per farla bella davvero, come non basta sempre avere un’idea coraggiosa e certo spiazzante per fare un film grande e memorabile. Occorre poi saperla raccontare quell’idea, come pure ammette Benigni nel corso del film, quando rievoca l’aneddoto dell’uccellino che viene ad appoggiarsi sulla sua spalla, e come soprattutto dimostra l’intera storia del cinema. Si può anche sorridere con serial killer feroci come Verdoux, e anche, addirittura, con l’Olocausto e con una “sporca guerra” come quella irachena, ma ci vuole tocco leggero, ritmo e misura, spontaneità.
Invece, in La tigre e la neve le gag sono sempre un po’ forzate, il racconto è sovraesposto e spesso gira a vuoto, e le intenzioni (appunto quelle poetiche) restano solo declamate. Benigni, come spesso gli capita nel cinema, fa troppo affidamento su se stesso, e talvolta non basta. Nel film Jean Reno, presentato come il più grande poeta iracheno, viene utilizzato quasi solo per fare qualche telefonata, Battiston fa da autista e poi scompare, Renzi si perde sulla strada di Bassora, e la partner femminile, Nicoletta Braschi, è in coma per gran parte del tempo. Resta solo Benigni che si aggira per Bagdad, tra bombardamenti e incendi, gente che fugge e che ruba, campi minati e posti di blocco tenuti da marines armati fino ai denti ma che amano la poesia. La guerra, la morte, le violenze, restano sullo sfondo, quasi ignorate da chi è ossessionato dal suo esclusivo sogno d’amore. E’ vero, l’amore, il sogno, la realtà vissuta come favola, possono giustificare tutto. Ne La vita è bella c’era l’amore di un padre verso il figlio, che inventava un gioco dentro la tragedia, e l’idea funzionava eccome; in La tigre e la neve c’è solo l’amore di un uomo petulante, più che irresponsabile, e la cosa funziona assai meno.
Resta naturalmente la forza e il talento di un attore-personaggio formidabile, che qui appare però un po’ sprecato, e anche curiosamente troppo attento a certi equilibri politico-diplomatici (piuttosto che dir male degli americani, meglio non parlarne). Ci sono, certo, alcune gag irresistibili (Benigni scambiato per kamikaze o che recita il Padre Nostro in onore di Allah), altre francamente imbarazzanti (come quella del cammello disubbidiente). La sensazione è che basterebbe una regia più sorvegliata, un ritmo appena più compatto, una tenuta del racconto più severa, e tutto diventerebbe migliore, quasi accettabile. Ma forse non sarebbe più Benigni.
di Piero Spila