La terra promessa
Le recensioni di La terra promessa, di Nikolaj Arcel, a cura di Guido Reverdito, Giulio Zoppello e Arianna Vietina.
La recensione
di Guido Reverdito
Dopo aver diretto La torre nera nel 2017 – mix di fantasy e azione tratto dall’omonima saga di Stephen King –, con questo La terra promessa il 52enne danese Nikolaj Arcel si cimenta in un dramma storico ed epico. E lo fa tornando a parlare di quel cruciale segmento di storia patria che sono le vicende danesi di fine’700. Un periodo che aveva già affrontato in quello che resta forse il suo film migliore. Ovvero The Royal Affair, altro dramma in costume vincitore di un orso d’argento a Berlino e candidato danese agli Oscar come miglior film straniero (film in cui Mads Mikkelsen aveva un ruolo di primo piano nei panni di un medico illuminista che cercava invano di combattere l’oscurantismo della corte danese dell’epoca).
E non è forse un caso che anche in questo potente affresco quasi tutto girato nelle lande sconfinate dello Jutland (fotografate con tonalità fredde e desaturate da Rasmus Videbæk, con cui Arcel vanta un sodalizio di anni), sia lo stesso attore a giganteggiare nel ruolo di un uomo chiamato da solo a combattere una battaglia impari da una parte contro le forze della Natura, e dall’altra contro l’ostilità del Potere corrotto e ottuso, costretto però alla fine a cedere di fronte al successo di Kahlen nella sua folle impresa di colonizzazione.
Il tutto in un impianto narrativo che deve molto al western classico di cui sfrutta tutti i tratti caratteristici. Dalla terra di frontiera da conquistare e bonificare alla lotta con coloni recalcitranti e manigoldi assortiti che popolano quelle lande inospitali; dalla donna col carattere forte capace di opporsi alle avversità ma anche a donare il proprio amore a chi lo meriti, per finire con l’eroe e il suo brutale antagonista.
Il primo presentato da Arcel non solo come l’utopista pronto a sfidare Natura e poteri forti pur di riuscire nell’impossibile, ma anche come l’individuo ossessionato da una fissazione monomaniacale destinata a fargli perdere di vista le sfumature infinite della Vita nella sua complessità. Il secondo, invece, feroce quanto basta per rimanere impresso nella memoria dello spettatore, che non può rimanere indifferente di fronte a scene in cui la sua ferocia fine a se stessa arriva a vertici insostenibili anche per stomaci allenati al gore.
Forse non apprezzato per quanto avrebbe dovuto da parte di pubblico e critica alla fine della proiezione in laguna, La terra promessa – titolo scelto dalla distribuzione internazionale per attirare l’attenzione sull’obiettivo del protagonista a scapito dell’originale Bastarden che si riferiva tanto all’eroe della storia quanto agli altri anti-eroi che lo aiutano nell’impresa – ha forse pagato lo scotto di essere un mix di generi. Il che è invece proprio ciò che lo rende un prodotto unico in cui l’epica della frontiera si sposa alla perfezione con il dramma in costume.
La recensione
di Giulio Zoppello
Nella Danimarca di metà 700, lo Jutland rimane una landa sabbiosa, una brughiera desolata, ostile, in cui ogni tipo di colonizzazione appare impossibile. Non la pensa così però il capitano Ludvig Kahlen (Mads Mikkelsen), lui è sicuro di farcela, parte con la sua pensione e un vago permesso consentito dal traballante governo. Vuole costruirsi un futuro che, nelle sue speranze, comporta anche un titolo nobiliare. Non ha fatto però i conti con il folle Frederik de Schinkel (Simon Bennebjerg), potente signorotto locale, che cercherà in tutti i modi di mettergli i bastoni tra le ruote. Ostinato, cocciuto, non meno individualista della sua nemesi, Kahlen a poco a poco diventerà il punto di riferimento per una colonia di rinnegati, per gli ultimi costretti a sopravvivere ad una fatica e una violenza indicibile in quelle terre desolate, senza avere nulla da perdere. A dargli manforte avrà soltanto la cameriera Ann Barbara (Amanda Collin) e pochi altri, tallonati da un’ingiustizia che domina ovunque.
La terra promessa di Nikolaj Arcel è un film a metà tra melodramma storico e metafora politica, valorizzato in modo perfetto da una splendida fotografia di Rasmus Videbæk, che fa risplendere la natura ostile e selvaggia che fa da contenitore a un dramma viscerale. Mikkelsen è un protagonista di metallica determinazione, un perfetto ritratto di quella piccola borghesia su cui il Nord Europa, proprio in quei secoli, avrebbe costituito la nuova classe dirigente, formata da uomini pronti a tutto, spietati. Rievocazione storica meticolosa, che interessa abiti e linguaggio, ci mostra la brutalità della società del ‘700, fortemente classista, naturalmente maschilista e violenta. De Schinkel grazie a Bennebjerg diventa contenitore del peggio che la nobiltà, ma più in generale le classi elevate, sono state capaci di fare al popolo. La terra promessa però è anche un racconto di donne. Lì sono diverse solo nell’aspetto, ma accumunate dall’essere vittime perenni, strumenti di piacere o da riproduzione.
Il film non ha una trama particolarmente innovativa, ma non lo era neppure il romanzo Ida Jessen da cui è tratto. Si presenta come un lavoro crudo,, violento, toccante e quindi generoso a livello emotivo, così come importante dal punto di vista storico. Difficile che possa andare a premio a Venezia, forse solo Mikkelsen potrebbe arrivarvi, ma la concorrenza è spietata. Di certo rappresenta un’ottima prova di regia e di atmosfera, sa divertire, regalare tenerezza così come orrore, quello con cui è da sempre scritta la sofferenza che ha forgiato il mondo, checché ne pensi Hollywood.
La recensione
di Arianna Vietina
Danimarca, metà del 1700. Il capitano Kahlen decide di investire la sua pensione militare nel tentativo di iniziare una coltivazione nella brughiera dello Jutland, una landa desolata popolata solo da cespi di erica e briganti. Il benestare del re non è sufficiente a garantire a quest’uomo, solo contro il mondo, la possibilità di realizzare questo sogno, a cui si oppongono numerose e diverse forze.
Mads Mikkelsen dà il volto a un eroe pragmatico, che insegue il suo obiettivo con metodo a costo di grandi sacrifici, ma senza fermarsi al classico eroe senza macchia: certamente è umano, ma ha imparato a trattenere le emozioni con caparbietà e fierezza, perché niente possa ostacolarlo nel suo percorso. Questo film, che potremmo inserire nel genere epico-storico, è peculiare perché costruisce personaggi e vicende non troppo stereotipati, ma neanche troppo atipici e inverosimili.
Si pone in una via di mezzo, per cui risulta un lungometraggio avvincente e soddisfacente da seguire, senza mai scadere in banalità e risoluzioni magiche; e i personaggi sufficientemente bidimensionali per essere originali, pur essendo poggiati su basi archetipiche che lo spettatore può riconoscere e con cui può empatizzare. Un mix che vale la pena di notare poiché potrebbe essere la chiave per la sua vendibilità nei cinema.
È un film riuscito, che costruisce un’epica nazionale senza essere pomposo e condensando la giusta dose di dramma capace di rapire il pubblico in sala. Tecnicamente lo stile della regia e della fotografia seguono questo concetto, per cui ci accolgono in spazi esteticamente familiari e gradevoli, ma ben connotati geograficamente ed esotici al punto giusto da incuriosirci. Sarà emerso da queste righe la mia opinione sul fatto che non siamo di fronte a un lavoro originale, ma a un prodotto ben fatto. In attesa di scoprire il ruolo del titolo in questa 80^ edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, mi piace prospettare un futuro positivo al botteghino nel nostro paese. Con la giusta promozione dei temi e dei personaggi, valorizzando i suoi aspetti estetici e di intrattenimento, e segnalando il tipo di violenza presente nel film, potrebbe essere un titolo vincente nel mercato d’essai.
di Guido Reverdito, Giulio Zoppello e Arianna Vietina