La tenerezza

Con La tenerezza Gianni Amelio firma il suo undicesimo film in trentacinque anni di una carriera d’autore disseminata di titoli che hanno segnato l’immaginario collettivo accompagnando la storia del nostro paese come un breviario per immagini dedicato a illustrarne coi tomi più intensi del melodramma le infinite contraddizioni ma soprattutto le complesse trasformazioni sociali e culturali che ne hanno caratterizzato il contorto evolversi negli anni.
Come già successo in almeno altri quattro casi tra cinema e TV (per Porte aperte, Il primo uomo, Le chiavi di casa e La città del sole), anche per La tenerezza Amelio ha deciso di partire da un romanzo per tradirne con scrupolosa accuratezza gli spiriti e le forme e riadattarlo alla sua idea di cinema tutto investigazioni delle fibrillazioni dell’anima e indagini introspettive dei contrasti interiori che sconvolgono quasi tutti i personaggi che hanno popolato i suoi film.
Dopo essersi appropriato di autori «alti» come Sciascia, Camus, Pontiggia e Campanella, questa volta la scelta di Amelio è ricaduta su La tentazione di essere felici, terzo libro dell’ex-avvocato napoletano Lorenzo Marone passato alla scrittura a tempo pieno dopo dieci anni di professione nel capoluogo partenopeo e divenuto inaspettatamente autore molto noto con questo suo intenso ritratto di famiglie (allo sfascio) in un interno.
Un romanzo cui già nei titoli si dice che La tenerezza è liberamente ispirato, visto che la sceneggiatura scritta a quattro mani da Amelio stesso e da Alberto Taraglio non solo ne modifica parte della struttura rimescolando le carte in tavola coi personaggi e i loro nomi (primo fra tutti il Cesare del libro che qui diventa l’avvocato Lorenzo Bentivoglio), ma che già fin dal titolo sposta l’attenzione sulla centralità di un sentimento – la tenerezza – che per l’intera durata del film brilla per la propria assenza nei rapporti tra i vari soggetti coinvolti nella vicenda e che solo nel finale si intravede come una chimera possibile nel futuro di ciò che si potrà ricostruire sulle macerie del presente.
Più che La tenerezza il film di Amelio avrebbe forse dovuto chiamarsi La durezza, visto che tutti i personaggi dimostrano a vario titolo di essere stati sfregiati dalla Vita nell’intimo, riducendosi ad aride comparse di una recita sociale nella quale la famiglia mostra le crepe definitive in una struttura ormai travolta dai tempi in cui viviamo e incapace di offrire ospitalità a chi ancora vi si vorrebbe rifugiare per trovare un porto franco per dimenticare il proprio male di vivere.
Così è per il protagonista (un gigantesco Renato Carpentieri che con Amelio aveva già lavorato in Porte aperte e che con la sua memorabile interpretazione fa rimpiangere l’essere stato utilizzato col contagocce e ignorato dai troppi registi che si sono dimenticati di avere a disposizione un attore di questo calibro). Il suo avvocato Bentivoglio è un parafangaro in pensione fresco reduce da un infarto che col procedere delle scene scopriamo essere stato un pessimo padre dei figli Elena e Saverio (coi quali non parla più da anni perché «ha smesso di amarli quando sono cresciuti») ma anche un marito fedifrago (vedovo di una moglie – «mai amata» – che ha fatto morire di crepacuore nel momento in cui una sua lunga relazione extraconiugale era stata scoperta).
Anaffettivo coi figli e consorte sleale ma anche trafficone arcinoto a tutta Napoli per il suo costante navigare ai confini tra la legalità e il suo aggiramento creativo, l’avvocato Bentivoglio riesce ad aprirsi soltanto col nipotino che la figlia Elena (interprete giurata del tribunale dall’arabo e affidata a una rediviva Giovanna Mezzogiorno, tornata al cinema che conta dopo essersi dedicata a tempo pieno ai due gemelli avuti cinque anni fa) cerca di crescere da madre single e col quale ha modo di essere sincero perché non teme fatali conseguenze affettive susseguenti a rischiose esposizioni dei propri sentimenti.
In questo deserto di affetti che lui stesso ha creato come uno scudo protettivo contro l’invadenza della realtà, irrompe però il classico elemento perturbatore destinato a sconvolgere la chimica del cuore e a imprimere alla sceneggiatura uno scarto inatteso. A interpretare questo ruolo è una famiglia (solo apparentemente in perfetto stile Mulino Bianco) venuta ad abitare nell’appartamento dirimpetto a quello dove vive il protagonista durante la sua degenza in ospedale.
Michela e Fabio, romana lei e triestino lui, non sono però quel che un occhio distratto potrebbe pensare a prima vista. La Michela di Micaela Ramazzotti (di nuovo alle prese con un ruolo da allegra svampita con tanti scheletri nell’armadio sotto l’apparenza da Sandra Milo dei giorni nostri) è una madre a tempo pieno che riversa sui figli l’affetto che non ha mai avuto in un’infanzia all’orfanotrofio. Mentre il Fabio di Elio Germano (superlativo nel dimostrare che anche gli attori della sua generazione sanno riprodurre accenti e varietà regionali dell’italiano diverse da quelle di provenienza) è un ingegnere navale trasferito da Napoli a Trieste ma fin da subito incapace di nascondere la propria inadeguatezza e l’essere in costante bilico sull’orlo di una profonda crisi di nervi.
Crisi che – anticipata da un paio di scene premonitrici in cui lo si vede alle prese coi propri demoni interiori e un’infanzia a sua volta problematica – non tarda a esplodere devastando a vario titolo i brandelli di esistenza di tutti. Quando in un accesso di follia Fabio stermina moglie e figli per poi spararsi alla tempia, Bentivoglio fatica a digerire questa nuova disfatta di cui, una volta tanto, non è l’artefice ma di cui è a sua volta vittima visto che il rapporto con Michela e i suoi bambini aveva iniziato a farlo uscire dal guscio del suo egoismo anaffettivo costringendolo a ripensare criticamente (e quindi anche a pentirsi) delle scelte di una vita spesa al minimo sindacale dei sentimenti relazionali.
Melodramma intensissimo e capace di scandagliare l’anima dei suoi personaggi ricorrendo a dialoghi di rara efficacia icastica e al puro sfruttamento della recitazione di un cast meravigliosamente in palla, come nei più alti esiti raggiunti in trentacinque anni di carriera, anche in questo suo undicesimo film il regista calabrese usa gli strumenti del genere cinematografico a lui più congeniale per raccontare il mondo in cui viviamo partendo dal particolare di storie minime per assurgere all’universalità della rappresentazione. Senza mai perdere il controllo della materia raffigurata e soprattutto evitando che il rischio della lacrimuccia su ordinazione faccia capolino tra le pieghe della tragedia.
Più che un ritratto di famiglie in interno con vista sull’asfissia che ne governa le relazioni, La tenerezza è l’autopsia della famiglia stessa intesa come istituzione di raccordo sociale, ultimo baluardo cui tutti vorrebbero affidarsi nell’imminenza del baratro. Tanto l’avvocato Bentivoglio quanto il dirimpettaio Enzo sono ipostasi metaforiche dei becchini chiamati a rottamare la famiglia lasciando allo spettatore il compito di raccoglierne i cocci. Se l’anziano e burbero protagonista il proprio ristretto clan l’ha rottamato alla vecchia maniera negando affetto a figli incapaci di farsi voler bene da adulti e tradendo la moglie da fedifrago da manuale, l’ingegnere triestino si fa interprete della nuova modalità di rottamazione regalando ai reality più pruriginosi l’ennesima strage della follia con suicidio finale di cui tracimano le cronache di ogni giorno.
In una Napoli del centro storico cupa e piovosa meravigliosamente convertita in personaggio attivo dalla fotografia di Luca Bigazzi che la trasforma in quinta vitale per il precipitare degli eventi, il peso tragico di una vicenda che strozza il fiato in gola fa a tempo nel finale vagamente consolatorio a illudere lo spettatore che un domani sia possibile. Un domani in cui quella tenerezza invocata dal titolo (e qui rappresentata dalle mani del protagonista e della figlia che finalmente si ritrovano in una stretta carica di presagi mentre il cielo si rischiara e i grattacieli del centro direzionale della Napoli “moderna” cancellano per un attimo l’asfissia urbana dei vicoli dei Quartieri Spagnoli) sembra fare finalmente capolino lasciando che l’illusione della felicità evocata dal titolo del romanzo di partenza sfiori quanti non hanno mai potuto beneficiare del suo tocco fino a quel momento.
Trama
Reduce da un infarto, un anziano e scorbutico avvocato napoletano vedovo da cinque anni e con due figli cui non parla più da tempo scopre di essere meno misantropo e cinico di quanto lo si creda nel momento in cui una famiglia con bimbi piccoli si trasferisce nell’appartamento di fronte al suo e gli offre l’occasione di aprirsi a un mondo di affetti fino a quel momento a lui praticamente sconosciuto. Ma quando il capofamiglia dei nuovi vicini compie all’improvviso una strage suicidandosi dopo aver ucciso moglie e figli, l’anziano avvocato ne rimane devastato nell’intimo, ripensando criticamente a tutte le
di Guido Reverdito