La stanza degli omicidi
La recensione di La stanza degli omicidi, di Nicol Paone, a cura di Guido Reverdito.
Uma Thurman è la proprietaria di una galleria d’arte contemporanea a New York. In crisi perché abbandonata dal suo artista di punta, sommersa dai debiti e incapace di accettare l’essere ormai tagliata fuori dai giri che contano, il caso le offre una ghiotta e inattesa occasione per ritornare in auge: tramite il pusher che le fornisce l’Aderall di cui è dipendente, Patricia (questo il nome della protagonista) entra in contatto con un panettiere dei sobborghi (Samuel L. Jackson con vistosa barba posticcia) che in realtà fa lavoretti sporchi per la mala insieme a un killer a pagamento (il roccioso Joe Manganiello, qui mono-espressione per 98’), il quale esegue i suoi contratti soffocando le vittime con sacchetti di plastica. Tra i tre è colpo di fulmine (criminale) a prima vista: la gallerista si impegna a riciclare denaro per il duo di canaglie. Ma per farlo occorre avere qualche “pezzo” da vendere con cui abbindolare i molti collezionisti d’arte contemporanea pronti a investire somme esagerate su presunti artisti emergenti. Artista che le due menti del trio si inventano con un guizzo geniale, trasformando le “opere” del killer in pezzo unici da smerciare (con successo) sul mercato.
Diretto da Nicol Paone (qui alla sua seconda regia dopo il non certo memorabile Invito a cena con disastro del 2020 e una carriera di successo come stand-up comedian nella scuderia della Groundlings Sunday Company), e co-prodotto da Uma Thurman insieme alla figlia da lei avuta con Ethan Hawke (qui visibile in un breve cameo un po’ ruffiano insieme alla celebre madre), questo La stanza degli omicidi è uscito lo scorso settembre in non molte sale negli USA riparando di fretta e furia sulle piattaforme in streaming dopo un’accoglienza che di solito oltreoceano si riserva solo ai fischi più sonori. E non c’è da stupirsi che sia stato così.
Confuso nelle intenzioni su dove collocarsi a livello di genere cinematografico (sgonfio come commedia nera, incapace di graffiare come satira del mondo dell’arte contemporanea, indeciso tra il crime, lo heist e il gangster movie oltre che superficiale nel disegno di personaggi che si vorrebbero memorabili ma che invece finiscono solo per essere irritanti), questa maionese impazzita in cui c’è di tutto e di più senza che nulla funzioni a dovere è più che altro una grossa occasione sprecata.
Non solo perché a 29 anni di distanza dal cult di Pulp Fiction i milioni di aficionados del cinema di Tarantino avevano di nuovo l’opportunità di vedere all’opera insieme Uma Thurman e Samuel L. Jackson (qui ingabbiato in un personaggio di colore che parla in yiddish risultando involontariamente ridicolo). Ma anche e soprattutto perché la sceneggiatura di Jonathan Jacobson aveva la chance per fare quello che già in The Squadre (ma pure in Zoolander per la moda) era stato fatto: ovvero raccontare da dentro e con un po’ di sana cattiveria il mondo dell’arte contemporanea mettendone alla berlina la costante ansia di tradurre la trivialità del quotidiano in creazioni artistiche da spacciare a collezionisti creduloni. E invece ciò che forse resterà sarà solo il rimpianto per due super star del calibro di Thurman e Jackson (una più a disagio dell’altro) per aver preso parte attiva a un’operazione che ha il sapore di un infelice incidente di percorso più che essere l’occasione per rinnovare le dissacranti atmosfere pulp del maestro che da attori li ha convertiti in nomi di culto.
di Guido Reverdito