La spia – A Most Wanted Man

Günther Bachmann è un agente dei servizi segreti tedeschi di stanza ad Amburgo (città apparentemente tranquilla divenuta però «sito a rischio» dopo che si venne a sapere che alcuni degli attentatori delle Torri Gemelle l’avevano eletta a base). Che non sia una super star dello spionaggio lo si capisce dal luogo dove opera con la sua squadra: e cioè uno squallido garage sotterraneo che se da una parte garantisce al gruppo la necessaria protezione per agire sotto copertura, dall’altra denuncia lo stato di sostanziale emarginazione in cui Bachmann e soci agiscono.

E Bachmann stesso è una specie di icona ambulante del fallimento professionale: legato a principi inossidabili che risalgono all’era dello spionaggio internazionale d’alto profilo figlio della Guerra Fredda, porta dentro di sé le ferite di una serie di missioni finite male tra le cui varie conseguenze pratiche c’è forse il garage in cui trascorre ore a spiare gli altri, fedele all’ideale — come egli stesso ripete non appena ne ha occasione di farlo — di lavorare per «rendere il mondo un luogo più sicuro». E non è un caso che la sua profonda frustrazione umana e professionale si converta in facili tentativi di consolazione alcolica uniti a un tabagismo compulsivo. Al punto che non c’è quasi scena in cui non lo si veda o con un bicchiere di scotch in mano o con una sigaretta in bocca.

La sua esistenza piuttosto monotona e piatta si anima all’improvviso quando sulla scena cittadina appare un giovane profugo proveniente dalla tribolata terra di Cececia: figlio di una cecena e di un militare russo che l’ha violentata, Yssa Kharpov arriva per vie traverse a contattare una bella avvocatessa radical (Rachel McAdams) che, pur essendo figlia di papà, si occupa dei diritti degli umiliati e offesi della terra. Allarmati al pensiero che il ragazzo possa essere un potenziale jihadista con la strage pronta in tasca e non un semplice disgraziato in cerca di asilo e di una vita normale, i servizi segreti tedeschi e una bella signora della CIA (la Robin Wright ex signora Penn qui algida come nella serie TV di culto House of Cards) che agisce sotto copertura iniziano a fibrillare, coinvolgendo nelle loro ansie paranoiche l’intera comunità islamica della città.

Seguendo l’avvocatessa, Bachmann e soci scoprono che Kharpov (l’uomo molto ricercato del titolo) è ad Amburgo anche per un’altra ragione molto meno politica e apparentemente per nulla inquietante: reca infatti con sé una lettera che l’odiato padre gli ha scritto per metterlo in contatto con un banchiere d’affari locale (Willem Dafoe spesso sopra le righe) onde permettergli di entrare in possesso di un’ingentissima somma di denaro da questi raggranellata in Cecenia (di certo non in maniera nobile ma sulla pelle di poveri disgraziati come la madre del ragazzo).

Quando Kharpov scopre l’entità del lascito e ne intuisce la provenienza sordida, decide di devolvere il tutto in beneficienza. Ma è a quel punto che Bachmann decide di usarlo come esca per incastrare un noto predicatore della comunità islamica sospettato di fomentare gli animi dei propri correligionari sotto una facciata per bene. Le cose però non vanno come da copione e al pingue Bachmann non resterà che arrendersi all’idea di dover aggiungere un altro fallimento professionale alla serie di mancati successi di una carriera al capolinea.

Tratto dal terzultimo romanzo di John le Carré — ex agente segreto britannico alla cui ricca produzione di spy novel il cinema non ha mai smesso di attingere sin dai tempi de La spia che venne dal freddo — pubblicato in Italia nel 2008 con lo strano titolo di Yssa il buono mentre l’originale inglese coincideva con quello poi attribuito al film, La spia — A most Wanted Man è un classico prodotto da cinema di spionaggio che ne rispetta con rigore filologico i canoni estetici e le regole cristallizzate negli anni della Guerra Fredda.

Detto così potrebbe quindi sembrare che ci si trovi di fronte a una trita riproposizione di stereotipi stanchi in un film reso demodé sia dalla materia trattata che dalle modalità con cui essa viene trattata. Invece nulla è come ci si potrebbe aspettare. Anton Corbijin, il sessantenne regista olandese che l’ha diretto (ex fotografo delle star del cinema poi passato dietro la macchina da presa e con al suo attivo titoli di pregio quali Control, Linear e The American) ha scelto di asciugare al massimo il plot, riducendo al minimo sindacale quel che di solito si intende come azioni per concentrarsi invece in maniera quasi esclusiva sulla (ri)costruzione di atmosfere ambientali e su insistite immersioni nei paesaggi interiori dei personaggi che le azioni le subiscono più che esserne veri protagonisti. Un lavoro simile cioè a quello fatto per il recente La talpa, non a caso ugualmente tratto da un romanzo di le Carré.

In questo lo aiuta di certo un’Amburgo molto suggestiva e inedita che il cinema ha sfruttato troppo poco e che qui si impone sullo schermo come una sorta di personaggio aggiunto capace di offrire squarci acquatici di bellezza struggente uniti a desolazioni urbane che fanno da contraltare ambientale alla desertificazione interiore degli individui. Il tutto fotografato con occhio vigile e originalissimo da un regista che lascia capire quanto possa pesare l’avere nel proprio bagaglio una lunga esperienza nel campo.

Ma l’aiuto più consistente a Corbijn glielo dà Philip Seymour Hoffman nei panni di Bachmann. Scomparso il 2 febbraio scorso in circostanze ancora non del tutto chiarite (anche se evidentemente collegabili a un percorso di autodistruzione fatto di droghe e alcool che nessuna riabilitazione era riuscita a frenare), questo spy movie di alta qualità presentato fuori concorso al Festival di Roma è l’ultimo film interpretato da quello che probabilmente avrebbe finito per diventare il più grande attore americano della sua generazione.

Notoriamente perfezionista al punto da sapersi immedesimare in maniera totale coi personaggi che interpretava, anche qui Hoffman dà l’impressione non tanto di recitare nei panni di Bachmann, quanto piuttosto di essere Bachmann stesso. Al punto di arrivare a parlare con un vistoso ma non fasullo accento tedesco (anche se questo aspetto il pubblico italiano non lo potrà apprezzare per colpa del doppiaggio).

Favorito dalla congiunzione di lune tra i demoni che agitano l’anima contorta del personaggio interpretato e i propri fantasmi interiori, per lo spettatore diventa difficile distinguere se l’ansimare e la voce arrochita dal fumo con cui Bachmann accompagna le battute faticosamente pronunciate siano le tracce di un’immedesimazione totale o piuttosto le avvisaglie dell’affiorare di un vissuto reale capace di superare le barriere della professione e sporcare la recitazione con risultati quasi scioccanti.

Una sovrapposizione impressionante di piani che la sceneggiatura di Andrew Bovell serve a Hoffman su un piatto d’argento quasi per favorirne la naturale vocazione a fagocitare il personaggio interpretato. E quando nel finale il «suo» Bachmann, reduce dal fallimento della missione che avrebbe dovuto usare Kharpov come esca per denunciare le vere intenzioni del predicatore islamico e ammaccato da un incidente stradale organizzato ad hoc dai servizi tedeschi ufficiali e dalla CIA, esce dalla macchina e barcolla instabile lungo la strada inquadrato solo di schiena, sembra quasi che Hoffman usi la scena per congedarsi non solo dal pubblico che l’ha adorato, ma dalla vita stessa.

Trama

Un agente segreto tedesco e la sua squadra devono cercare di capire se un giovane profugo ceceno fuggito dagli orrori del proprio paese sia soltanto in cerca di asilo e protezione o se invece sia un potenziale jihadista pronto a seminare il terrore in Germania. Quando emerge che c’è di mezzo anche una vistosa eredità lasciatagli dal padre (un militare russo che aveva violentato la madre cecena), le cose si complicano ulteriormente.


di Redazione
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