La siciliana ribelle
Il film è liberamente ispirato alla vera storia di Rita Atria, nata a Partanna, in provincia di Trapani, nel 1974 e figlia di un piccolo boss, Don Vito, detto “u paciere” (chi mette pace), affiliato al potente clan degli Accardo. A soli undici anni Rita perde il padre, ucciso dalle cosche amiche perché contrario al nuovo e remunerativo business dell’eroina, a diciassette l’amatissimo fratello Nicola, che aveva seguito le orme del genitore e di cui Rita era diventata la più intima confidente, insieme alla moglie Piera Aiello. Mossa dall’esempio della cognata, che dopo la morte del marito sceglierà di diventare collaboratrice di giustizia, Rita decide di mettere a disposizione del giudice Paolo Borsellino tutte le notizie apprese durante una vita vissuta da donna di mafia in una famiglia di mafia e scrupolosamente riportate nei suoi diari, diventando la prima “testimone di giustizia” della Storia, non essendo lei propriamente una pentita, colpevole, cioè, di reati di mafia. Ripudiata dalla madre, dall’altra sorella e dal fidanzato, troverà conforto nel rapporto, quasi filiale, con Borsellino, che la accudirà e sosterrà fino al giorno della sua morte, nella Strage di via D’Amelio del 19 luglio 1992. Sette giorni dopo, Rita si lancia dal settimo piano dell’appartamento segreto in cui viveva a Roma: “Adesso non c’è più chi mi protegge, sono avvilita, non ce la faccio più”.
Il fine programmatico di questo film è, secondo le parole dello stesso regista palermitano, quello di “raccontare la mafia in un modo differente, lontana anni luce dalle fiction tv e dalle saghe stile Padrino”, e l’alta statura morale della vicenda umana di Rita Atria, bene si sarebbe prestata al conseguimento di tali nobili intenti. Purtroppo, però, La Siciliana ribelle si configura subito come un insieme di luoghi comuni utilizzati per dare una rappresentazione di maniera della Sicilia: la vecchia onesta mafia del magnanimo Don Michele Mancuso, che protegge e fa giustizia vendicando i soprusi e che si oppone al traffico della droga voluto dallo spietato Don Salvo, tipico esponente di una “disonorata” nuova mafia; l’assenza e il disinteresse di uno Stato debole e rinunciatario; l’avversione ostinata verso i suoi rappresentanti (“curnuti e sbirri”); la raffigurazione di una Sicilia arcaica e omertosa, con le processioni, le spiagge, il mare, le donne vestite di nero fin dalla più tenera età, le madri che ripudiano i figli piuttosto che accettare l’infamia della ribellione.
Ciò che più colpisce, però, non è tanto l’uso di consolidati stereotipi che, in quanto tali, hanno comunque in se stessi un nocciolo di verità e che sarebbero potuti rientrare nell’ottica di un aderente realismo, quanto la superficialità con cui essi sono portati sullo schermo, la mancanza di qualsiasi approfondimento, sia nella costruzione dei personaggi sia nell’articolazione della struttura narrativa. Amenta rimane imbrigliato nelle sue velleità, l’intento di denuncia, e quindi anche la forte valenza etica della testimonianza della Atria, si perde in un ritratto prevedibile, enfatizzato da dialoghi volutamente pomposi e poco realistici, mentre il percorso di maturazione che portò Rita da donna di mafia desiderosa solo di vendetta, a donna emancipata e portatrice di una nuova coscienza civile, è ridotto a una semplice battuta a effetto durante il processo. Anche la figura del giudice Borsellino e l’importante ruolo che egli esercitò nella presa di coscienza da parte di Rita, sono ridotti al minimo, giusto per far leva sul tasto dolente della lotta fra l’indomito magistrato e la sanguinaria organizzazione criminale. Tuttavia, nonostante la mediocrità del risultato (non migliore delle vituperate fiction tv e, in alcuni casi, anche peggiore, se si pensa, per esempio, all’intenso Paolo Borsellino di Giorgio Tirabassi nell’omonima fiction di Gianluca Tavarelli), Amenta ci regala alcune belle sequenze, come quella della corsa a perdifiato dei due fidanzati sulla spiaggia o l’altra in cui la protagonista medita vendetta tra fila di panni neri mossi violentemente dal vento. Indovinata anche la scelta della lampedusana Veronica D’Agostino, che, nella naturalezza della sua interpretazione, riesce a dare una certa credibilità al personaggio di Rita.
di Amanda Romano