La seconda vita
La recensione di La seconda vita, di Vito Palmieri, a cura di Carmen Albergo.
Quando un film sa davvero parlarci “di immagini” e non solo “con le immagini”, asservite a illustrare una storia, non passa inosservato. Quando il film non prescrive per lo spettatore la risoluzione, ma rilascia insieme smarrimento e respiro, si suole dire che “c’è nella vita”, in cui nulla è mai davvero risolto. Che è Arte.
Accade con La seconda Vita, ultima opera del regista pugliese Vito Palmieri, versatile autore di documentari e fiction, presentato in anteprima al BiFest – Bari International Film Festival 2024 e dal 4 Aprile distribuito nelle sale italiane da Articolture e Lo Scrittoio.
Palmieri, anche co-sceneggiatore insieme a Michele Santeramo, autore del romanzo omonimo, non solo concretizza uno dei cardini della narrazione, lo Show, don’t tell, per di più qualcosa di per sè quanto mai incondivisibile, ovvero l’iter di reinserimento sociale susseguente al carcere, ma magistralmente elude l’ineffabilità del tema, affidandosi all’esperanto espressivo dei volti e alle intense sfumature di sguardi.
Coglie e restituisce anche nella sola minima inflessione delle palpebre o degli angoli della bocca, l’ellissi spazio-temporale di un universo imploso di emozioni, che su un medesimo volto va da un ghigno granitico e minaccioso a un’ espressione smarrita e irrimediabilmente persa, vittima di se stessa. Affascinante, nel cast corale, la prova dell’attrice casertana Marianna Fontana, che interpreta il difficile ruolo di Anna, trattenendoci a lungo nella programmatica “apnea” della scena iniziale. Del resto Palmieri ha avuto modo di approfondire la materia, che non a caso maneggia bene anche “nell’amalgama” fra attori professionisti e non professionisti (qui la collaborazione con la Compagnia della Fortezza di Volterra) nel di poco precedente documentario Riparazioni, in cui osserva il percorso umano di giustizia riparativa di detenuti che, nonostante il “fine pena mai”, anelano alla compassione, quale punto di ripartenza.
Anna ha già scontato la sua pena giudiziaria, per una colpa che ha stroncato brutalmente la sua adolescenza e interdetto forse una volta per tutte la possibilità di essere compresa. Per sfuggire allo stigma di una infamia perpetua, si trasferisce in un nuovo paese, in cerca di una nuova identità. Il film, scritto e diretto tutto in sottrazione, sottende i dolorosi accadimenti passati, se non per fugaci flashback, raccordati come affioramenti visivi, appunto. Non di meno ci sono negate le parole, eccezion fatta per gli icastici versi della canzone La Vela della cantautrice Cristina Donà, suggestiva deflagrazione della colonna musicale.
I dialoghi disseminati nell’azione, ma diegeticamente occultati dietro disparate barriere vetrate o superfici riflettenti (il divisorio del parlatoio, il design di interni a vista, ma anche lo specchietto retrovisore nell’abitacolo di un auto) recidono drasticamente confessioni e confidenze, per trattenerci nel viscerale tentativo di dimenticare qualcosa che mancherà sempre di ragione.
L’unica distensione concessaci è lo slancio panoramico sugli orizzonti del paesaggio naturale, astrarsi in un non luogo nella finzione, che è nella realtà il borgo toscano di Peccioli, co-protagonista anch’esso con il suo dedalo di viuzze e il contrasto di architetture antiche e contemporanee. Godiamo così, di vere e proprie trasfigurazioni, più che di similitudini, nel rapporto tra i personaggi e l’animus loci, in conflitto tra accoglienza e sopruso : il continuo riproporsi di un bivio sul cammino, il rapporto di voraggine interiore e attesa, tra un campanile e la sua campana in riparazione, le installazioni delle macrosculture in pietra di figure umane, le Presenze monumentali, che incombono nerborute dalla terra, predatrici di solitudini. I quattro elementi (già citate acqua e terra, ma anche aria che riverbera sonora, il fuoco illusione d’implacabile l’olblio) in molte scene che scandiscono vicende ed epilogo, suggeriscono l’unico riscatto possibile, ovvero il principio della trasformazione, per cui nulla si (auto)distrugge davvero, ma rinasce di volta in volta. Anche Anna troverà il coraggio.
Così dissimulata in questa messa in scena, la preziosa inclinazione all’osservazione dell’accadimento introspettivo, che pare impercettibile e invece è moto simbiotico col creato, il cinema di Palmieri lo aveva espresso nel See you in texas del 2016, pedinamento laconico, ma intriso di potente simbolismo di una giovane coppia di agricoltori trentini, in reciproca contrapposizione tra la terra di appartenenza e il superamento dei propri confini. Anche qui nel finale aperto, l’epifania di una iconica nascita, probabilmente irrilevante nella investigazione umana tra finzione e realtà, eppure così ben ponderata nella trama, da essere foriera di un potente immaginario. Quello che si chiede davvero al grande schermo.
di Carmen Albergo