La sala professori
La recensione di Andrea Bosco, seguita dalla rassegna stampa a cura di Simone Soranna, riguardo a La sala professori, di Ilker Çatak, Film della Critica per l'SNCCI.
La sala professori, di Ilker Çatak, distribuito da Lucky Red è stato designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani – SNCCI con la seguente motivazione:
«Nel microcosmo di una scuola tedesca “a tolleranza zero”, Çatak mostra come la democrazia, nell’illusorio tentativo di risolvere un banale caso, finisca con lo stravolgere privacy, libertà, dignità delle persone e, soprattutto, la ricerca della verità. Lo sguardo accusatorio di una webcam finisce col destabilizzare una situazione sotterraneamente già nervosa, mettendo in crisi indagini e relazioni, dove tutti, insegnanti, studenti e genitori, escono sconfitti».
La recensione di
Andrea Bosco
Ha lasciato al palo rivali di alto profilo come Foglie al vento di Aki Kaurismäki, Racconto di due stagioni di Nuri Bilge Ceylan e La passione di Dodin Bouffant di Tran Anh Hung nella corsa all’Oscar per il miglior film internazionale e per molti versi non si fatica a capirne il motivo: La sala professori è un prodotto più facilmente assimilabile dal pubblico generalista e dagli addetti ai lavori d’oltreoceano, presenta una connotazione autoriale meno marcata – anche per via di un cineasta ancora in via di definizione come İlker Çatak – rispetto ai suoi avversari ed è così genericamente poco riconducibile alla sua identità nazionale da essere già virtualmente pronto per un potenziale rifacimento in terra americana.
Ci sono di sicuro molti spunti, in questo piccolo dramma tedesco, in grado di attirare l’attenzione di un Paese che si ritrova oggi a valutare a freddo le conseguenze di quella cultura del boicottaggio partorita dalla Hollywood dello scorso decennio e diffusasi di lì a qualche anno in tutto il panorama socioculturale occidentale: nel fallimento della missione educativa della giovane insegnante Carla Nowak – un’ottima Leonie Benesch, già fra i protagonisti de Il nastro bianco di Michael Haneke – ci sono lo sfasamento di chi vede il proprio idealismo sgretolarsi di fronte non solo alla complessità, ma pure ai paradossi del mondo circostante e il senso di sconfitta di chi si rende conto che le proprie buone intenzioni, invece di concretizzarsi, stanno finendo per lastricare la strada per l’inferno.
Non sapremo mai fra chi si nasconde il colpevole della serie di furti che si verifica nella scuola media che fa da teatro delle vicende, perché il punto sta tutto da un’altra parte, e più precisamente nelle tensioni che non aspettavano altro che esplodere all’interno di questa società in miniatura in cui le giuste rivendicazioni degli alunni sfociano nella sedizione, la cautela del corpo docenti tradisce tutta la sua sprovvedutezza e il capro espiatorio che ci si è affrettati a individuare può metterci molto poco a trasformarsi in un mostro.
È una visione, vivaddio, nient’affatto consolatoria che mette in discussione tanto l’invadenza di chi esercita l’autorità quanto la tracotanza di chi la subisce, che cerca di raccontare sia lo sconforto di chi non sa scrollarsi di dosso un’etichetta di vittima che non merita, sia lo scoramento di chi, pure per convenienza, quell’etichetta la desidererebbe per sé.
Si ha l’impressione, però, che questo atteggiamento equidistante nasconda in realtà la prudenza tipica del cerchiobottismo, che la natura ricercatamente ambigua dell’intreccio – la stessa alla base di un’opera di gran lunga più compiuta come Anatomia di una caduta – impedisca al film di assumersi il coraggio delle sue idee e determini una palpabile confusione, anche stilistica, d’insieme, tra una disamina sociologica sulla scia de La classe di Laurent Cantet ma che, complice una caratterizzazione così posticcia dei ragazzi e delle ragazze che compongono la scolaresca da andare a scapito del realismo, non va mai veramente in profondità, e una prospettiva ansiogena e opprimente sulle aule e sui corridoi che costituiscono la totalità degli ambienti che guarda addirittura a Elephant, di cui oltretutto recupera il ricorso al formato 4:3.
Se il modello registico di riferimento, poi, stando alle parole di Çatak, era un thriller a combustione lenta sul tipo di Diamanti grezzi dei fratelli Safdie, non si può non notare quanto il crescendo di tensione funzioni a singhiozzo, tra sequenze riuscite, come ad esempio la riunione coi genitori o la lezione di ginnastica e il successivo inseguimento, e momenti di autentica sciatteria – su tutte l’intervista per il giornalino studentesco – che culminano in uno scioglimento che si vorrebbe anticlimatico ma che appare soltanto approssimativo e inconcludente.
Problematico ma non troppo, anticonformista solo fino a un certo punto e benedetto da una generosa sopravvalutazione, La sala professori è probabilmente un film meno interessante di qualsiasi dibattito sull’attualità che può scatenare: è giusto riconoscergli il pregio di aver evitato la rigidezza e il didascalismo dell’opera a tesi, ma può davvero bastare?
Una breve rassegna della stampa italiana sul film
(a cura di Simone Soranna)
La sala professori è stato accolto in maniera generalmente positiva dalla stampa italiana, che ha affrontato il film provando a toccare aspetti e tematiche differenti. Ad esempio, Dario Boldini, su Sentieri Selvaggi, inserisce il lungo all’interno del filone del cinema che ha raccontato il mondo delle scuole. Scrive così infatti il critico: «Non è la prima volta che il cinema attinge all’ambiente scolastico in qualità di speciale microcosmo in vitro, atto a delineare e consentire l’osservazione di dinamiche sociali seminali o chiamate a specchiare il cosiddetto mondo vero, al di fuori. E al di là dell’inflazionato cult generazionale di Peter Weir (L’attimo fuggente) o della Palma d’Oro francese conquistata da Laurent Cantet – con La classe in bilico tra fiction e documentario – è stato lo stesso cinema tedesco, attraverso L’onda di Dennis Gansel, a tracciare un’imperfetta rotta di navigazione che oggi, grazie a La sala professori, riscopre appieno i propri punti di riferimento».
Alessio Palma, su Quinlan, loda il film poiché riesce a centrare l’obiettivo che si prefigge. Secondo il critico infatti «La sala professori è un film che ha ben chiaro il proprio obiettivo, che è quello di insinuare dei dubbi circa la tenuta di una società perfettamente armonica e democratica. Solo i giovani sembrano avere la prontezza di riflessi per reagire ai problemi che li circondano, rifiutando di conformarsi e cercando di apprendere ciò che possono dai loro insegnanti: anche se non è certo che proprio questi ultimi abbiano davvero imparato la lezione».
Anche Marianna Cappi, su MyMovies, pone l’accento sulla rappresentazione scolastica che emerge il film, denotando come «La sala professori fotografa con la giusta drammaticità lo stato di un’istituzione in grossa crisi, esogena e endogena, in cui il rispetto che un tempo era precetto è stato sostituito dal sentimento umorale, per cui all’insegnante si dà retta finché è simpatico, sa intrattenere, non si fa scudo con il suo ruolo, perché allora quello scudo, sebbene di latta, diventa subito il bersaglio del tiro incrociato di alunni e genitori».
Stefano Giani, sulle pagine di Il Giornale, loda la pellicola come la più riuscita tra quelle nominate all’Oscar per il miglior film internazionale, affermando che «Ci voleva un regista di origini turche per far fare bella figura al cinema tedesco. E se ora La sala professori è il più autorevole candidato agli Oscar nella cinquina del film internazionale, il merito è suo». Gli fa eco Fabio Ferzetti su L’espresso, il quale scrive che il progetto sia «un film da Oscar sull’Europa di oggi, piombato come il classico ospite imprevisto nella cinquina dell’Oscar per il miglior film straniero: La sala professori si candida anche a essere una delle rivelazioni dell’anno».
Infine, interessante l’approccio critico di Michele Gottardi che riconduce il film all’interno di un ambiente al tempo stesso interessante quanto scivoloso. Scrive così il critico su Il Mattino di Padova: «Chi l’ha frequentata sa che la sala professori di una scuola non è propriamente un luogo di varia umanità dove i docenti si confidano e si scambiano consigli con serenità, ma piuttosto vede spesso prevalere la sindrome del Marchese del Grillo (“io son io e voi non siete …”), con conseguenze evidenti anche nella didattica. Da qualche parte in Germania, vicino ad Amburgo, esiste una scuola dove la situazione non è diversa, peggiorata da sospetti e tensioni sociali e personali».
di Andrea Bosco