La ruota delle meraviglie

Pallida dark lady di periferia, dura e fragile insieme, la Ginny interpretata da Kate Winslet è l’anima e il corpo dell’ultimo film di Woody Allen, La ruota delle meraviglie. L’impressionante prova di attrice della Winslet è sicuramente il miglior motivo per andare a vedere questa storia di tristi amori e illusioni spezzate in una cornice anni Cinquanta; ma non è l’unico, perché il film, peraltro duramente stroncato in patria e accolto come deludente prova di un regista anziano che sforna troppi titoli, ha in realtà più di un motivo di interesse. Innanzitutto l’ambientazione, fra giostre e luci di Coney Island, la stessa dove Alvy Singer raccontava di aver vissuto in una celebre scena di Io e Annie: poi la fotografia di Vittorio Storaro, alla sua seconda collaborazione con Allen dopo Café Society; quindi la buona prova di tutto il cast e l’intrigante andamento di questo melodramma molto teatrale, che cita esplicitamente la tragedia greca (Ginny come novella Fedra) ma evoca soprattutto Tennessee Williams, in particolare Un tram che si chiama desiderio.

Certo, La ruota delle meraviglie non è certo un capolavoro, né pretende di esserlo; si tratta piuttosto di un buon esempio di cinema medio, quello che spesso fa storcere il naso a chi scrive di critica, ma che in definitiva costituisce da sempre l’ossatura della cinematografia a ogni latitudine. Woody Allen, è vero, da parecchio tempo non ci regala più autentici grandi film, ma non per questo va bocciato in toto; è ancora troppo innamorato del cinema e dei personaggi che mette in scena. Con questa Coney Island canaglia, set di tragedia e inesorabile quotidianità, il regista torna dalle parti di Blue Jasmine, opera che costruendo un superbo personaggio femminile aveva saputo affascinare il pubblico e aveva fatto conquistare a Cate Blanchett l’Oscar come migliore attrice protagonista.

L’Oscar se lo meriterebbe senz’altro anche Kate Winslet, che si mostra qui sciupata, invecchiata ad arte per interpretare una quarantenne – dalla vita professionale e affettiva tutta sbagliata – che si innamora di un uomo più giovane, punta tutto sulla storia con lui e naturalmente perde, dopo aver trascinato alla rovina non solo se stessa. Justin Timberlake è l’uomo conteso della storia e insieme il narratore, con un artificio un po’ meccanico – dall’alto della sua sedia da bagnino contempla il mondo e le sue miserie. James Belushi – ottimamente doppiato da Francesco Pannofino nella versione italiana – fornisce una buona prova nel ruolo di un uomo rozzo ma anche bisognoso di sostegno. Juno Temple è luminosa, seducente, memorabile nel ruolo della sventata Carolina.

La storia ha qualche lentezza di troppo soprattutto nella parte centrale, i dialoghi talvolta sono un poco artificiosi e privi di quella naturalezza a cui Allen ci ha abituato; lo sviluppo della trama non è certo imprevedibile. Eppure questi difetti non rovinano il buon risultato complessivo di un film che riesce comunque a essere suggestivo, romantico e malinconico. L’amore fa nascere grandi speranze e compiere scelte terribili. Ma non avviene nessuna catarsi finale, perché non siamo in una tragedia greca: siamo a Coney Island negli anni Cinquanta, fra zuppe di pesce e povere vestagliette di lamé. E qui comunque la vita va maledettamente avanti, a qualsiasi prezzo.

 

 

 

 

Trama

  New York, anni Cinquanta. In una Coney Island sempre più in declino il giostraio Humpty cerca di sbarcare il lunario insieme alla inquieta moglie Ginny, ex attrice diventata cameriera e al figliastro Richie, dieci anni e una passione per il cinema e soprattutto per gli incendi. Un giorno Humpty ritrova la figlia Carolina, che era scappata di casa per sposare un gangster e che ora è in serio pericolo. Ginny mal sopporta l’arrivo della figlia del marito, ma a illuminare la sua spenta e nervosa esistenza ci pensa la relazione appassionata con l’affascinante bagnino intellettuale Mickey. Ma un incontro casuale di fronte a un cinema rimescola le carte e Ginny deve franare sotto i piedi ogni possibilità di essere ancora felice.  

di Anna Parodi
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