La rosa bianca
Vedendo la locandina di La rosa bianca (Orso d’Argento a Berlino e premio all’attrice), si immagina di trovarsi di fronte all’ennesima, seppur necessaria, opera sul nazismo e i suoi orrori: in realtà, il film del giovane regista Marc Rothemund denuncia i crimini e le atrocità del regime, ma lo fa scegliendo un punto di osservazione inedito e originale.
Più della metà del film è ambientata, infatti, in un ufficio chiuso e claustrofobico in cui Mohr, funzionario della Gestapo, interroga, in un confronto/scontro teso e snervante, Sophie Scholl (Julia Jentsch), accusata, insieme al fratello Hans, di alto tradimento.
La Storia, con la s maiuscola, è, dunque, qui presentata in maniera quasi intimista: la vicenda si svolge tutta all’interno dell’animo della protagonista, apparentemente anonima e indifesa, in verità, dotata di grande forza e audacia, pur di restare fedele ai propri ideali.
Se la prima parte della pellicola, costituita dal serrato faccia a faccia in cui Sophie, con la sua coscienza limpida e salda, mette in crisi il funzionario, può, in qualche momento, risultare un po’ fredda, la seconda ci introduce nel dramma vero e proprio, rivelandosi più coinvolgente.
A questo punto, Sophie, ormai condannata a morte, rivede, per l’ultimo saluto i genitori: la fragile madre e, soprattutto, il padre che le ha insegnato a battersi per una vita libera ed onesta e che si dice fiero di lei. Subito dopo, la ragazza può, prima di morire, riabbracciare il fratello, anch’egli destinato alla ghigliottina e sostenitore dell’idea che occorre essere duri nello spirito ma teneri nel cuore.
Con l’esecuzione dei due coraggiosi fratelli e di un loro amico, il film si conclude, lasciando nello spettatore un senso di disagio e di inadeguatezza, se si riflette su come, oggi, non sia tanto difficile esprimere opinioni personali, quanto, piuttosto, averne, considerato il clima di conformismo e di omologazione in cui tutti, più o meno, siamo immersi.
di Mariella Cruciani