La ragazza del treno

La ragazza del treno è stato un caso editoriale senza precedenti. Scritto in breve tempo da una ex giornalista del «Time» (l’inglese Paula Hawkins nata nello Zimbabwe), nell’arco di meno di un anno e mezzo è diventato un best-seller planetario: 15 milioni di copie vendute fino a oggi (di cui la bellezza di 600.000 solo in Italia, uno dei paesi dove la gente legge di meno al mondo) e traduzioni in trenta lingue, non ostante sia piuttosto difficile trovare una ragione logica capace di spiegare razionalmente i motivi di un successo tanto rapido quanto diffuso.

Vuoi che la Hollywood dei giorni nostri, a corto com’è di ispirazione al punto da raschiare da anni il barile delle fonti di possibile ispirazione senza nemmeno disdegnare videogame e attrazioni dei parchi tematici, si potesse lasciar scappare l’occasione di tradurre in immagini per il grande schermo una storia concepita a tavolino per diventare un successo senza pari presso quella fetta di lettori (le donne) che sono lo zoccolo duro su cui sopravvive l’editoria di ogni paese?

Ovviamente no. Ed ecco quindi puntuale, a pochi mesi di distanza dalle prime avvisaglie di una marcia trionfale annunciata, arrivare sugli schermi di tutto il mondo un thriller patinato e oltremodo pretenzioso che mira a insidiare al botteghino le cifre raggiunte dalle vendite in libreria, contribuendo molto probabilmente a farle aumentare ancora di più grazie al cortocircuito vizioso presso quanti vorranno ritrovare nel libro non letto le (poche) emozioni vissute in sala.

Chi aveva comprato i diritti del romanzo della Hawkins (nella persona di Holly Barrio, capo produzione alla Dream Works) aveva visto lungo perché — caso piuttosto infrequente per un autore esordiente — si era sbrigato ad accaparrarseli ancor prima che il libro venisse dato alle stampe. E di lì a concepire gli ingredienti giusti per un fuoco d’artificio nelle sale è stato un attimo. Bastava trovare un regista con nel curriculum qualche titolo che mostrasse propensione allo studio della psicologia femminile e mettergli a disposizione un budget adeguato per scritturare nomi di forte richiamo da sfruttare come specchietti per le allodole nei trailer e sul già previsto bombardamento del lancio.

Il primo è stato trovato in Tate Taylor che il grande pubblico aveva avuto modo di apprezzare per The Help, drammone forse sopravvalutato sull’America segregazionista ma con al centro caratteri forti di donne da battaglia. Per i secondi si è invece puntato su Emily Blunt, bellezza spiazzante capace di svolazzare a proprio agio tra generi diversissimi e qui imbruttita a dovere per poter vestire i panni della protagonista, una trentenne depressa e alcolizzata incapace di metabolizzare un matrimonio andato a male per colpa della sua presunta inadeguatezza esistenziale.

Accanto a lei una diva emergente del calibro di Haley Bennet, la bionda conturbante vista di recente nel remake de I magnifici 7 e qui impegnata a vestire gli scomodi panni della moglie di un macho palestrato col quale forma una coppia che la protagonista guarda con ammirazione ogni giorno dal treno che la porta al lavoro a Manhattan considerandola un’immagine della perfezione in terra, pur dimostrandosi l’esatto contrario non appena la fitta rete di eventi intorno al quali ruota il film ne mostra tutte le crepe nascoste dalla facciata per bene.

Costato 45 milioni di dollari e con al suo attivo incassi per l’esatto doppio in due sole settimane di programmazione nel Regno Unito e negli USA, La ragazza del treno è un mélo tutto testa e poco pathos scritto da una donna (ma non dalla Hawkins che si è rifiutata di mettere mano alla sceneggiatura) animata da vaghe pulsioni femministoidi e incentrato su un’intricata matassa di menzogne e sospetti che coinvolgono tre donne legate da rapporti più o meno malati che il pubblico riesce a sbrigare soltanto nel truculento finale solutorio.

Devastata da un recente divorzio che le ha piagato l’anima portandola a cercare nelle consolazioni dell’alcool un farmaco che le curi le ferite interiori, la tormentata Rachel osserva ogni giorno dal treno che la porta al lavoro a Manhattan (ma sarà poi vero?) una coppia che ai suoi occhi incarna quell’armonia psicofisica che lei e l’ex marito non sono riusciti a creare. Ma tra la conturbante Megan e il palestrato Scott le cose non stanno veramente così perché la ragazza ha poderosi scheletri nell’armadio che cerca di disseppellire dal profondo di un subconscio pieno di crepe facendosi aiutare da uno strizzacervelli fascinoso (col quale finisce presto a letto mostrando la sua vera natura di ninfomane che cerca nel sesso quelle conferme che un’adolescenza sbandata le ha negato).

Scott e Megan vivono a pochi passi dalla casa dove Rachel abitava col marito prima che il loro matrimonio naufragasse. E il caso vuole che la nuova moglie dell’ex consorte — l’algida Anna divenuta da poco mamma — abbia al suo servizio come babysitter proprio la conturbante Megan. Ma quando quest’ultima prima scompare misteriosamente e poi viene trovata assassinata lì nei pressi, Rachel si finge sua amica e cerca di scoprire da sola chi sia stato a ucciderla. Annebbiata com’è dall’alcool e poco credibile anche per gli atteggiamenti da stalker che ha in più di un’occasione mostrato verso l’ex marito e la sua nuova compagna, finisce col farsi sospettare dalla polizia per aver commesso il delitto su cui sta cercando di fare chiarezza.

Basato su un libro che ha tempo e modo di sviscerare a fondo le interiorità diversamente disturbate delle tre donne protagoniste della torbida vicenda e di affastellare un coacervo di temi complessi che la pagina scritta consente di far convivere senza ingenerare confusione nel lettore, la sua trasposizione filmica (in cui i lettori rimarranno sconcertati al vedere che l’azione è stata inspiegabilmente spostata dai sobborghi di Londra a quelli di New York) trova proprio in questi due aspetti le sue maggiori fragilità a livello di scrittura e di resa per immagini.

Al punto che per un’ora chi non abbia letto il libro (mentre chi lo ha fatto non amerà di certo questa sua fiacca traduzione cinematografica) si trova a costante disagio dovendo da una parte penetrare nelle complesse psicologie delle tre donne senza avere troppi elementi narrativi per farlo e dall’altra barcamenarsi tra i continui salti cronologici annunciati da cartigli su sfondo nero che dovrebbero fare da frecce direzionali nel tempo e rendere mossi caratteri bidimensionali come cartonati senza vita e che invece non fanno che aumentare la frammentazione del racconto.

La ragazza sul treno è un thriller molto ambizioso e patinato che vorrebbe forse guardare a modelli di riferimento cinematografico francamente troppo alti per poter essere additati come fonte di ispirazione. E non sono pochi quelli che si sono infatti sbrigati a scomodare l’hitchcokiano La finestra sul cortile, per arrivare fino al recente L’amore bugiardo — Gone Girl passando attraverso un classico del voyeurismo filmico quale Omicidio a luci rosse di Brian De Palma.

La verità è invece tutt’altra: se di modelli si deve parlare in un prodotto affetto da tutti i difetti che possono affliggere un progetto di successo studiato a tavolino, forse ciò che pare più vicino a quanto si vede sullo schermo è un’involontaria rilettura in nero della serie TV «Desperate Housewives», con casalinghe variamente fuori di testa che ambirebbero al ruolo di dark lady tutte ambiguità e mistero e che invece finiscono col naufragare nel ridicolo involontario delle troppe scene madri in cui violenze da B-movie estivo ne mutilano quel poco di credibilità rimasto intatto.

Trama

Devastata dal recente divorzio dal quale non si è ancora ripresa, ogni giorno la sfiorita Rachel osserva dal treno che la porta al lavoro a Manhattan una giovane coppia  che le pare perfetta per armonia e intesa sessuale. Il tutto non senza smettere di dare fastidio all’ex-marito e all’algida nuova moglie che questi si è scelto avendo con lei quel figlio che Rachel non era stata in grado di regalargli. Una volta che la donna osservata dal treno viene trovata cadavere in un bosco lì vicino, Rachel se ne finge amica e cerca di scoprire da sola chi sia stato a ucciderla. Ma quando la sua dipendenza dall’acool e le troppe amnesie portano la polizia a sospettare della sua innocenza, tutto si avvita in un vortice di menzogne e accuse incrociate tra i vari personaggi coinvolti nella vicenda e solo un truculento finale risolutore permetterà di chiarire cosa sia veramente accaduto.


di Guido Reverdito
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