La promessa dell’assassino
Il cinema di David Cronenberg ha avuto nell’arco di oltre trenta anni una sua chiara evoluzione, pur mantenendo al centro della sua poetica il corpo, la carne, il sangue. Dalle atmosfere horror de Il demone sotto la pelle (1975) e Rabid sete di sangue (1976), film nei quali la tendenza splatter era più che evidente, a opere come Spider (2002) e A History of Violence (2005), la cifra contenutistica del suo cinema sembra aver mantenuto talune caratteristiche che l’hanno fatto diventare regista di culto, specie per certe frange di cinephiles. In tutto questo periodo, Cronenberg ha però anche affinato il suo stile e messo a fuoco il suo universo poetico, che sempre più si è spostato verso il tema dell’identità. Di identità di parla in Spider, così come in A History of violence. Ora con La promessa dell’assassino, questo fulcro tematico (insieme a quello più esteriore della compenetrazione tra bene e male) si è fatto più limpido, chiaro cardine di un’architettura espressiva che trova i suoi puntelli anche in un uso intelligente dei codici di alcuni generi.
br> L’ultima fatica registica dell’autore canadese rappresenta un sorta di felice intreccio tra gangster-movie e spy-story. Croneberg ha utilizzato alcuni elementi tipici dei film incentrati sul fenomeno mafioso (nel caso specifico si occupa di mafia russa) e li ha inseriti in un contesto spionistico/poliziesco che viene svelato in un passaggio cruciale della vicenda. Ovviamente, non è la prima volta che il cinema si occupa di poliziotti/agenti segreti che lavorano sotto copertura nel mondo criminale, ma ciò che differenzia La promessa dell’assassinoda tutte le opere simili e appunto l’approccio concettuale di Cronenberg che si traduce anche in un’impostazione formale riconoscibile.
La promessa dell’assassino è un lungometraggio freddo, composto, misurato. La violenza è praticata dai protagonisti in una sorta di meccanismo esistenziale che trasforma atti riprovevoli e sanguinari in procedure quasi burocratiche. I mafiosi russi e ceceni che uccidono e sgozzano senza pietà, si comportano seguendo alla regola alcune procedure che riconoscono come le sole istanze normative alle quali si può fare riferimento. Cronenberg da una veste visuale a queste pratiche molto algida e scioccante. Le sue inquadrature sono solide e chiare, le sue immagini sono rese “metalliche” da una fotografia che fa divenire raggelante ogni fattore cromatico. L’autore poi, a parte il personaggio interpretato da Vincent Cassel (attraversato da un vena di follia) impone ai suoi attori una recitazione assolutamente controllata che contribuisce a far divenire la visione del film straniante. In tal senso, straordinarie appaiono le prestazioni di Viggo Mortensen e Naomi Watts. Addirittura strepitosa quella di Armin Mueller-Stahl, attore (a nostro avviso sottovalutato) di cristallina abilità in grado di comunicare orrore e depravazione attraverso un’interpretazione di rara compostezza espressiva.
La promessa dell’assassino porta alle estreme conseguenze il discorso iniziato da Cronenberg in A History of violence. Rappresenta un mondo cupo ed estremo, in cui la morte ha un posto centrale e in cui la disperazione esistenziale è esorcizzata attraverso la pratica quotidiana della violenza ingiustificata.
Come al solito, il cinema di David Cronenberg non risulta rassicurante, anzi lascia lo spettatore in uno stato di disagio provocato principalmente dal pessimismo che emerge dalla poetica del cineasta canadese che, sempre più, si occupa dell’identità degli individui, i quali riescono a sopravvivere solo nell’ambiguità. Da comportamenti superficiali/esteriori e perversioni generate dal falso senso esistenziale scaturiscono comportamenti imposti anche da un sentimento malato di appartenenza.
Ne La promessa dell’assassino la mafia russa, violentissima e crudele oltre ogni limite, è la metafora di una società frammentata e chiusa in particolarismi che finiscono per provocare ossessioni e una tragica, quanto inevitabile, tendenza verso la morte.
di Maurizio G. De Bonis