La pelle che abito

La solitudine e la follia. Il corpo e l’identità soggettiva. Il dolore della perdita e la capacità di sopravvivere alla sofferenza. L’elaborazione del lutto e l’impulso delirante alla vita. La sessualità e l’universo emotivo individuale. Il sentimento verso l’altro e il possesso dell’altro. La contraddizione come caratteristica fondamentale dell’animo umano.
Si potrebbe continuare a lungo nella razionale elencazione dei temi che Pedro Almodòvar ha collocato nella struttura narrativa della sua ultima prova regista: La pelle che abito.
Ciò, però, sarebbe esercizio critico fin troppo ovvio e prevedibile, poichè da sempre il cineasta spagnolo ha costretto pubblico e addetti ai lavori a confrontarsi con una complessa architettura contenutistica costantemente in grado di toccare la sfera emotiva dello spettatore.
A noi sembra, invece, che in questa recente operazione creativa siano più significativi gli intenti culturali, teorici e linguistici che stanno alla base del progetto. In tal senso, La pelle che io abito non può essere considerato solo un film. Ed è dunque superfluo cercare di capire se questo lungometraggio sia o no da annoverare tra i suoi migliori.
La questione è altra. Si avverte, infatti, che le fondamenta di questo lavoro affondano in un terreno meticcio di notevole fertilità artistica, estraneo alle catalogazioni.
Ma iniziamo dai collegamenti cinematografici. Almodovar si confronta, o meglio entra in relazione profonda, con alcuni generi filmici (nonché con movimenti artistici) e con autori che sono stati punti di riferimento fondamentali nell’ambito del suo percorso autoriale. Anche in questo caso la lista potrebbe essere lunga: dall’horror al thriller, dal melò al cinema psicologico, fino al surrealismo. Ed ancora: citazioni da opere di Alfred Hitchock, Luis Buñuel, Michael Powell, James Whale, Terence Fisher.
Ma l’operazione analitica che ci sembra di gran lunga più importante non è tanto quella di stilare la lista delle connessioni estetiche e contenutistiche messe in atto da Almodòvar quanto, piuttosto, quella di evidenziare la limpida capacità da parte del regista di convogliare tutti questi fattori nell’ambito di un territorio espressivo che gli è proprio. Tale territorio è una sorta di “spazio ibrido” nel quale l’autore di Légami! miscela con abilità cristallina la sostanza del melodramma alla cultura visuale del Novecento.
La rete malata e assurda di relazioni umane delineata da Almodovar ne La pelle che abito scaturisce a nostro avviso, in modo chiaro, da un apparato che deriva da una poetica del melodramma lirico che trova una sua perfetta organizzazione in alcune opere di Gaetano Donizetti e Giuseppe Verdi. Ma tale, convulso, magma di argomenti riesce ad essere credibile grazie all’evidente modernità dello sguardo di Almodòvar, il quale, oltretutto, fa emergere in modo preciso le fonti artistiche alle quali si abbevera.
Il nome di Louise Bourgeois è emblematico e permette al fruitore di relazionarsi con il film in maniera transartistica e transculturale. Anche la scultrice francese, così come Almodòvar, si occupava di corpi e sessualità, di angoscia esistenziale e ossessioni individuali, di abisso del subconscio e di essenza della forma, di eros e di spaesamento soggettivo. Si avvertono, inoltre, echi delle arti visive tecnologiche e della fotografia della fine del Novecento, in particolar modo per la parossistica attenzione che Pedro Almodòvar riserva alla costruzione di immagini che possiedono una tagliente nitidezza del segno, tanto da sforare in alcune occasioni quasi nell’iperrealismo. Il nitore dei cromatismi e delle linee e la perfezione della composizione, così come l’equilibrio raggelante della relazione tra gli elementi compresi dentro l’inquadratura, sono fattori che mettono in comunicazione la cifra stilistica Almodòvar con un sentimento estetico che va oltre i confini del cinema.
Come se non bastasse, La pelle che abito è anche un efficace esempio di raffinata direzione della recitazione. Gli interpreti sono tutti (quasi) bloccati in un minimalismo espressivo tragico e impressionante. La sottrazione sembra essere tutto, così come la drammatica rigidità degli sguardi e dei movimenti nello spazio che caratterizzano le prestazioni di Antonio Banderas, Elena Anaya, Marisa Paredes.
di Maurizio G. De Bonis