La nostra vita

Daniele Luchetti guarda agli aspiranti micro-borghesi tendenzialmente qualunquisti delle periferie dormitorio, che sognano il viaggio in Sardegna e fanno shopping selvaggio al centro commerciale, come Pierpaolo Pasolini guardava ai sottoproletari delle borgate romane che vivevano nelle baracche e odiavano il lavoro. Oggi, invece si lavora (o almeno si vorrebbe lavorare), in nero e in una condizione di totale sfruttamento, e si insegue il sogno del benessere, anche a costo di far finta di non vedere un cadavere nella tromba delle scale di un cantiere di palazzo in costruzione.
È una rappresentazione amara quella effettuata da Daniele Luchetti ne La nostra vita, la raffigurazione drammatica di un paese e di una società, realtà entrambe malate e corrotte nelle quali non si distingue più l’onesto dal disonesto, il buono dal cattivo, il malavitoso dal lavoratore per bene. Eppure, nonostante questa involuzione civica regni sovrana, esiste ancora un ultimo nucleo di solidarietà: la famiglia. Quando Claudio (Elio Germano) rimane invischiato in una storia di prestiti e stipendi arretrati da pagare agli operai, ecco intervenire i fratelli con lauti prestiti. Si tratta forse della scena più debole del film, poiché artificiale e ovvia, fin troppo prevedibile. È proprio sicuro Luchetti che nelle famiglie italiane ci sia tutta questa attenzione verso i parenti in difficoltà? Temiamo che la situazione sia ancora più tragica rispetto a quella che il regista di Mio fratello è figlio unico ha delineato nel suo film. Nonostante ciò, Luchetti riesce a fotografare in maniera precisa la condizione del vivere oggi in Italia per chi deve darsi da fare per mettere insieme il pranzo con la cena, pagare le bollette e il latte in polvere per i figli. Compromessi continui, difficoltà economiche spaventose, tendenza a andare contro regole e leggi e, come si dice a Roma, “a fare impicci”, per dimostrare agli altri che si è qualcuno.

Daniele Luchetti costruisce questa vicenda di sofferenza e speranza grazie a uno stile ultra realistico. Macchina a mano, inquadrature traballanti, montaggio a tratti nervoso, fotografia verista e sporca, scenografie che puntano all’effetto di realtà. E poi la recitazione: spontanea, dialettale (si tratta di un romanesco più che verosimile) e in presa diretta. Quest’ultimo aspetto ha messo a dura prova tutti gli interpreti, che però sono riusciti a dare all’intera operazione filmica un cuore e una sostanza. Sorprende Raoul Bova, che in questa occasione fa quasi dimenticare una carriera non proprio eccelsa, colpisce Luca Zingaretti, spacciatore capellone su sedia a rotelle dotato di un’umanità impensabile. E poi c’è la questione Elio Germano. Premiato al Festival di Cannes (ex aequo con Javier Bardem) per la migliore interpretazione maschile, il protagonista de La nostra vita fornisce certamente una prestazione di notevole livello, anche se, onestamente, abbiamo l’impressione che in alcune circostanze risulti ancora un attore grezzo, con un potenziale enorme che deve essere totalmente sviluppato.

Nel panorama della cinematografia italiana attuale quest’ultima prova di Daniele Luchetti riesce senza dubbio a manifestarsi come un’opera significativa e curata nei dettagli, che si basa anche sulle sinergie espressive che si sono create tra i collaboratori del regista, a cominciare dagli sceneggiatori Sefano Rulli e Sandro Petraglia, fino al direttore della fotografia Claudio Collepiccolo.  Detto ciò, bisogna anche affermare come questo lungometraggio non abbia portato nulla di realmente innovativo alla cinematografica del nostro paese. Si tratta di uno sguardo lucido e forse un po’ troppo pietoso, ma non sconvolgente, che immortala la condizione sociale di una popolazione allo sbando, abbandonata dalla politica, che deve darsi da fare per sopravvivere e per ricostruire quel tessuto di relazioni umane, semplici e vere, che un tempo rappresentava il dato fondamentale della nostra società.


di Maurizio G. De Bonis
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