La natura dell’amore

La recensione di La natura dell'amore, di Monia Chokri, a cura di Andrea Bosco.

Dà l’impressione di andare un po’ troppo di fretta, La natura dell’amore, quantomeno nelle battute iniziali, ma probabilmente il punto è proprio questo: la terza sortita da regista dell’attrice québécoise Monia Chokri, lanciata da Xavier Dolan ai tempi de Gli amori immaginari, è in effetti un tuffo nei rapidi meccanismi irrazionali dei sentimenti, una disamina a tratti anche severa di quelle scelte incoerenti e scriteriate che sconvolgono i nostri equilibri interpersonali, un’operetta morale non solo sulla necessità del desiderio, ma pure sulle responsabilità a cui esso ci chiama.

Assomiglia a una triviale vicenda di infedeltà coniugale come tante, quella che coinvolge la rodata coppia composta da Sophie (un’ottima Magalie Lépine-Blondeau, interprete feticcio, nonché amica del cuore, di Chokri, radiosa presenza scenica a metà tra Charlize Theron e Virginie Efira) e Xavier, epitome del “bravo cristo” che non può fare nulla per arginare quelle pulsioni che spingono la moglie tra le braccia del ruspante Sylvain, rustico uomo di fatica selvatico quanto il suo nome, ideale ibrido fra il taglialegna e il tronista, traguardo di una fuga dalla routine che non vuole più fermarsi all’estemporanea botta di vita, ma il cui obiettivo è piuttosto quello di rinfocolare quella passione che anni di amore platonico avevano finito per spegnere.

Tutto bene, se non si mettesse di mezzo l’incolmabile gap socioculturale che separa la sofisticata docente universitaria che legge e rilegge Apollinaire dal “semplice” – come suggerisce il titolo originale – tuttofare che cita le canzonette di Michel Sardou e che non può e non intende scrollarsi di dosso quella sua appartenenza a un ceto assimilabile ai white trash dei vicini Stati Uniti: l’intreccio evolve quindi presto nella ricerca dell’autoaffermazione di una donna incapace di trovare un compromesso tra lo stimolo intellettuale e l’intesa fisica, tra la mente e la libido, tra essere l’interlocutrice di un’ironica top10 dei “migliori” dittatori oggi in attività durante una passeggiata o la femmina da scopare brutalmente contro il muro con tanto di guinzaglio al collo.

È una concezione forse un tantino approssimativa delle cose, che, per quanto giochi con sagacia con gli stereotipi che raffigura, rischia di ridurre tutto ad antinomie un po’ forzate, se non inesistenti, e la natura filosofica dell’operazione, che arriva letteralmente a costellare la storia di lezioni in cui si illustrano pensieri che passano da Platone a Spinoza e da Schopenhauer a Jankélévitch, è così scoperta da farsi fin didascalica: il trattamento impietoso riservato a tutti i personaggi, mai pienamente giustificati ma nemmeno immiseriti nei loro difetti, fa però del racconto un interessante studio di caratteri che schiva le trappole dello schematismo e che rimanda spesso agli episodi più felici della produzione di Agnès Jaoui.

Certo, è un film che funziona a corrente alternata, tra un insistito e volutamente anacronistico impiego dello zoom che alla lunga diventa stucchevole e un efficace, malinconico e laconico epilogo – al distributore di benzina, sotto una copiosa nevicata, come ne Le parapluies de Cherbourg di Demy – che ha il coraggio di essere il meno conciliante possibile, tra una durata eccessiva che porta, soprattutto nella sezione centrale, il ritmo ad arrancare e le divertentissime musiche originali di gusto vintage del francese Forever Pavot che sembrano sbucate dall’archivio di Piero Piccioni: un bilancio che si chiude positivamente, dunque, grazie anche a una scrittura sommariamente brillante, che rende questo piccolo lungometraggio canadese la visione più consona per scongiurare le mollezze tipiche delle strategiche uscite in sala per San Valentino.


di Andrea Bosco
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