La memoria dell’acqua

Nel documentario di Boris Nicot  Filmer obstinément, rencontre avec Patricio Guzman (2014), che abbiamo avuto la fortuna di vedere  al FID di Marsiglia due anni fa e che si svolge interamente nella  casa-archivio-atelier del grande regista cileno (classe 1941), Guzman spiegava al giovane filmmaker francese e a noi spettatori il suo cinema passato e quello futuro, mostrando numerosi documenti preparatori (tra cui la foto del bottone di madreperla del titolo originale)  di questa che è ora la sua nuova, straordinaria opera, distribuita anche in Italia grazie a I Wonder. Nel frattempo, La memoria dell’acqua ha vinto l’Orso d’Argento per la miglior sceneggiatura alla Berlinale 2015,  ha trionfato alla scorsa edizione del Biografilm di Bologna (che a Guzman aveva tributato un omaggio), ed è stato segnalato tra i “Film della critica” del SNCCI.

“L’acqua arriva dallo spazio, le comete crearono i mari”. Dall’estremo nord all’estremo sud di una nazione, di un continente, del pianeta, da un mondo solido e arido a un mondo liquido e umido, dalla luce accecante del deserto di Atacama, dalle cui altissime montagne gli astronomi scrutano le galassie più lontane, alle profondità oscure, paurose e insondabili, degli oceani, questo film prosegue il racconto iniziato con Nostalgia de la luz (2010); a questo dittico dovrebbe far seguito nelle intenzioni del regista un terzo film su quella cordigliera andina che divide il Cile dal resto del continente e ne fa in pratica un’isola, lunga migliaia di chilometri, a strapiombo sul mare (la catena montuosa appartiene a due distinte placche geologiche e potrebbe secondo alcuni studi spezzarsi e sprofondare nel mare l’intero paese).

Guzman ripropone  in questo film un metodo di pensare e fare il cinema che sembra rispondere a esigenze artistiche ma al tempo stesso anche pedagogiche: connettere il passato al futuro,  intrecciare saperi diversi (il regista convoca allo scopo uno storico, un antropologo, ma anche artisti e poeti) per mettere in discussione le nostre certezze e offrirci nuovi punti di vista. Così, egli associa l’indagine scientifica (per sua ammissione, è stato sempre interessato all’astronomia e alla geologia) alla ricerca sulla storia e la politica del Cile che marca quasi tutta la sua filmografia,  sposando sempre più il rigore del documento alla magia dell’invenzione e alla visionarietà dell’immagine (si pensi solo a quella incredibile mappa del Cile, riproduzione fedelissima lunga 15 metri, commissionata dallo stesso autore all’artista Emma Malig, che viene srotolata e poi ripresa dall’alto).

Un cinema, quello di Guzman,  che ha comunque per filo conduttore costante la memoria. Si tratta di una  memoria “ostinata” (come recita il titolo di un suo celebre documentario del 1997), perché deve lottare contro forze esterne ed interiori, ma che come il regista affermava nel finale di Nostalgia de la luz è una “forza di gravità che sempre ci attrae” e che sola consente agli uomini di vivere davvero nel presente. Nel caso della storia recente del Cile quella memoria  è  stata risucchiata nel buco nero dell’oblio e della rimozione collettiva dei fatti iniziati l’11 settembre 1973: il golpe militare di Pinochet che rovesciò il governo di Unidad Popular di Salvador Allende e la terribile repressione che ne seguì: torture, deportazioni, esilio, uccisioni  e sparizioni di migliaia di oppositori politici. Lo stesso  Guzman fu arrestato e recluso per due mesi dopo il golpe nello stadio nazionale di Santiago ma riuscì a lasciare il paese e a completare  in esilio – dopo aver fatto uscire indenni le bobine del girato – la trilogia che compone il monumentale documentario sull’ultima fase del governo Allende, La batalla de Chile.

Ma La memoria dell’acqua – racconto  che assume da subito un ritmo immersivo, a tratti ipnotico, tra immagini e suoni “senza tempo”,  e un tono elegiaco scandito dalla voice over (purtroppo nel doppiaggio troppo professionale  rispetto alla calda voce dello stesso autore come nella versione originale)  parte  da molto più lontano e da una rimozione ben più antica: quella dello sterminio degli indigeni, popoli “nomadi dell’acqua” che abitavano la Patagonia, vivendo in assoluta armonia con il cosmo e la natura prima dell’arrivo dell’uomo bianco colonizzatore. Il regista va dunque sulle loro tracce e scopre che di quelle etnie restano appena 20 discendenti diretti.  Fa parlare alcuni di essi, uomini e donne, ormai anziani, quasi fosse uno sciamano induce ricordi della loro infanzia e giovinezza e la memoria delle parole perdute della loro lingua,  veicolo di una identità cancellata.  Rivela fatti e mostra sbiadite foto di una storia costellata da una violenza efferata ma coperta dal silenzio, proprio come sarebbe accaduto, 150 anni dopo, per i massacri compiuti dai militari. A un certo punto, Guzman ricorda la storia – che sembra leggendaria eppure è reale – dei 4 indigeni che nel 1830 furono presi in ostaggio,  deportati a Londra e trattati come esemplari da baraccone dai conquistatori  inglesi: tra questi Jemmy Button  così rinominato per aver accettato di salire sulla nave inglese in cambio di un bottone di madreperla.

Ma l’acqua ha lunga memoria, e non trattiene i segreti dei crimini. Un giorno di tanti anni fa il mare aveva  restituito  il cadavere (“mal sigillato” dai suoi carnefici ) di una donna; più di recente – ma questa volta per una  precisa intuizione di un giudice –  dal mare era riemersa una delle traversine di ferro alle quali venivano legati i  corpi senza vita dei morti sotto tortura (nei vari centri di detenzione segreta come la famigerata Villa Grimaldi) prima di essere gettati in mare dagli elicotteri dei militari aguzzini (si parla di circa 1.400 casi).  Quella traversina custodiva, intatto, un bottone di madreperla:  per il regista, “quei due bottoni raccontano una stessa storia, una storia di sterminio”.

Diversamente  dal grande regista Rithy Pahn che aveva preferito desistere dal cercare una fotografia altrui  per ricreare, autonomamente con il linguaggio dell’arte  e del cinema (L’image manquante, 2013), la storia del ben più vasto genocidio cambogiano, quel bottone  è forse l’ “immagine mancante” cercata “ostinatamente” da Guzman per ricostruire, attraverso il cinema e grazie ad altre competenze lo scenario di un collettivo “delitto di Stato”, la prova che conferma e illumina il processo  indiziario (con pari ossessiva ostinazione, in Nostalgia de la luz vediamo i familiari degli scomparsi cercare nel deserto di Atacama, anche i più minuscoli frammenti delle ossa dei loro cari).  Sapendo però, come dice nel film il poeta, che “trovare il colpevole non è la fine del percorso”. Giustizia e verità possono sconfiggere l’impunità e la menzogna, ma è sempre la memoria viva e consapevole che può far progredire un popolo.  Ce lo ha ricordato, di recente, anche Historias de un juicio, un  documentario (proiettato in anteprima nazionale a Sguardi Altrove Film Festival, Miano)  di due giovani filmmaker, Alexandra Garcia-Vilà e Franck Moulin, che racconta  un’altra tragica storia, di massacri e di prolungata rimozione, iniziata solo pochi mesi dopo, non molto lontano da Santiago del Cile, in Argentina, 40 anni fa.

Se Patricio Guzman, come ha detto  Boris Nicot, è una sorta di cineasta “medico”, che cerca di curare una ferita che non vuole rimarginarsi, e se egli stesso ha finito per incarnare, con il suo cinema, la memoria del Cile, conforta constatare che, dopo tanti anni,  il suo lavoro  ha dato ricchi frutti: numerosi esponenti di quel vitalissimo “nuovo cinema cileno” emerso in questo ultimi anni (e al quale la Mostra di Pesaro ha dedicato un focus speciale nel 2013)  hanno infatti voluto e saputo, sia pure con registri stilistici assai diversi,  fare i conti con il passato, e tra questi anche il loro nome di punta Pablo Larrain.

TRAMA

Un bottone di madreperla incrostato nella ruggine di una rotaia in fondo al mare: è una traccia dei desaparecidos di Villa Grimaldi a Santiago, il grande centro cileno di detenzione e tortura sotto la dittatura di Pinochet. Un fiume che scorre e il tintinnio delle cascate: è la canzone dell’acqua alla base della cultura dei Selknams, popolazione nativa sudamericana trucidata dai colonizzatori. Due massacri, e la memoria dell’acqua: sono le chiavi narrative per raccontare la storia di un Paese e delle sue ferite ancora aperte, per percorrere il Cile e la sua bellezza, il Cile e la sua violenza. In un film eccezionale che affianca la crudezza della storia e la poesia della natura.


di Sergio Di Giorgi
Condividi