La meccanica delle ombre
Duval è, semplicemente, Duval. Un uomo insignificante fin dal cognome (un nome proprio non ce l’ha, o meglio, non è importante). Un impiegato puntiglioso e abitudinario, un tipo qualsiasi a cui nessuno fa caso. Ma dentro di sé Duval coltiva accuratamente i suoi demoni interiori, cova rabbia e frustrazioni capaci di esplodere, come si vede nella scena iniziale (forse la migliore) del film. Una caratteristica che gli costa il tranquillo posto di lavoro da contabile, ma che gli permetterà di attraversare l’inferno in cui lo precipita il nuovo impiego di trascrittore di intercettazioni telefoniche. Duval, protagonista del film di Thomas Kruithof La meccanica delle ombre, è un personaggio dimesso ma intrigante, molto ben costruito e sorretto da una straordinaria interpretazione di François Cluzet. Qualche concessione alla prevedibilità (ovviamente il nostro Duval passa il tempo costruendo puzzle) non pregiudica questo ritratto di un uomo che è solo apparentemente come tanti. Però, basta un buon protagonista per fare un buon film?
Il dubbio è legittimo di fronte a questo thriller franco-belga che riprende un tema caro a Hitchcock (personaggio ordinario in situazioni straordinarie) e riecheggia atmosfere di film come La conversazione di Coppola e I tre giorni del condor di Pollack. L’esordiente regista Thomas Kruithof, anche sceneggiatore con Yann Gotzlan, si muove con un certo stile in una storia claustrofobica e volontariamente demodé, fra appartamenti spogli che fanno da cornice a intrighi internazionali, macchine da scrivere (più rispettose della privacy rispetto al digitale), garage che fanno tanto Tutti gli uomi del presidente. L’azione non manca, ma è come compressa, trattenuta, soffocata da un certo grigiore che finisce per ingabbiare tutto il film, che risulta peraltro sorprendentemente lento per la durata che ha (appena novanta minuti).
Nel voler ricreare un certo cinema di genere anni Settanta, il regista ha puntato sulla sobrietà e sul più assoluto rigore, scelta che, se da una parte appare funzionale e rispettosa del discorso politico che sta alla base del film (dove si parla di un cinico complotto ad alti livelli che ostacola la liberazione di tre ostaggi francesi in Mauritania), dall’altra fa un poco rimpiangere la spettacolarità un po’ canagliesca di certi poliziotteschi all’italiana o di qualche facile polar francese di qualche decennio fa. Il giudizio, dunque, è solo in parte positivo: non mancano gli elementi convincenti nella Meccanica delle ombre, presentato in concorso al Torino Film Festival, ma il risultato finale è incolore come gli arredi “spionistici” in cui si muovono i personaggi. Della incredibile bravura di François Cluzet si è detto; merita una citazione anche il notevole cattivo di Denis Podalydès. Alba Rohrwacher se la cava bene, alle prese con l’unico personaggio femminile, che risulta però un po’ pleonastico.
TRAMA
Duval è un uomo di mezza età, disoccupato, ex alcolista, dalla vita grigia e abitudinaria. Quando finalmente gli viene offerto un lavoro, per di più ben pagato, accetta immediatamente anche se si rende conto che c’è qualcosa di losco nell’incarico che dovrà svolgere: trascrivere intercettazioni telefoniche, per di più usando la macchina da scrivere per non lasciare tracce. Ma presto Duval si accorge di essere entrato in un meccanismo pericoloso e prova inutilmente a uscirne…
di Anna Parodi