La Mala Educación

malaeducazionalmodovar

malaeducazionalmodovarFra tutti i cineasti spagnoli contemporanei, Almodóvar è il solo ad essersi guadagnato il titolo peraltro informale di autore tra i più importanti del cinema europeo, riuscendo con “Tutto su mia madre” e il successivo “Parla con lei”, a riunire in una sola voce di consenso, pubblico e critica. Questa volle ravvisare specialmente nel primo, l’opera della maturità, probabilmente il capolavoro del regista della Mancha, (ma chi scrive ne dubita fortemente), il superamento di tematiche più circoscritte, o, in altre parole, una weltanshauung che dalla hispanidad, perverrebbe alla universalidad.

Con La mala educacion (dove la “cattiva educazione” sembra piuttosto intesa nell’accezione più semplicistica di corruzione), per quella stessa critica Almodóvar farebbe un passo indietro, o se si vuole, un passo falso, verso un progressivo indebolimento narrativo in funzione delle proprie ossessioni omosessuali. Va detto, innanzitutto, che il film è un atto d’amore per il cinema (cosa non nuova per un autore come Almodóvar, ma pur sempre degna di nota), in specie per il processo di identificazione con il protagonista che è appunto regista di cinema. C’è nel film, una “mise en abyme”, che ne costituisce il nucleo centrale. Anzi, una buona parte di esso si svolge dentro un film, quello che nasce dalla lettura di un soggetto che vorrebbe riprodurre un frammento adolescenziale di due studenti di un collegio di preti nella Spagna tardo franchista, (siamo nei primi anni settanta), quasi che il passato esista soltanto in una forma filmica, il che sottintende benissimo che il cinema è pura arte del presente. L’autore non si stanca mai di celebrarlo, mettendovi le consuete citazioni, in particolare da se stesso (vedi, La legge del desiderio, ma non solo), rischiando tuttavia l’assuefazione.

L’adulto sacerdote corrompe il bambino che a sua volta è innamorato di un compagno di collegio che verrà allontanato dal direttore, mosso da gelosia e da vendetta. Come si vede, una struttura melodrammatica perfetta con menage a trois rovesciato di segno: qui infatti il terzo personaggio è l’orco cattivo che nel presente si trasforma inverosimilmente in un uomo sposato con figli, che tuttavia viene descritto come un semplice pervertito. L’impeto moralistico di questo Almodóvar, che non è nemmeno, come qualcuno ha detto, regolamento di conti con le istituzioni religiose repressive, (chi ha detto poi che un ragazzino avviato all’omosessualità debba in per forza diventare un travestito eroinomane?), mal si accompagna all’idea di melodramma che di fatto appartiene alla sensibilità dell’autore, al punto di diventare struttura stessa del racconto e altresì valenza espressiva.

Inoltre, vi è un’intuizione narrativa assai interessante, quando, il regista scopre che colui che si fa passare per Ignacio non è Ignacio ma suo fratello minore, aspirante attore, che viene purtroppo sciupata, nella volontà di costruire un ancor più inverosimile vissuto di Ignacio adulto, anziché consegnarlo alla pura finzione, ossia lasciando che il vero passato-presente di Ignacio fosse la vera incognita del cinema, ciò che non si può rappresentare, il cosiddetto pre-filmico. Quanto allo stile, abili e talvolta suggestivi movimenti di macchina, non allontanano tuttavia il sospetto di un’involuzione in senso manieristico, che avevamo già riscontrato nelle due opere precedenti e in altre come Tacchi a spillo e soprattutto in Carne tremula: insistere sulla costruzione della bella inquadratura, del movimento di macchina ineccepibile, nella convinzione (peraltro condivisa da un numero sempre più ampio di critici), che il cinema debba sempre più non identificarsi con la realtà.


di Maurizio Fantoni Minnella
Condividi

di Maurizio Fantoni Minnella
Condividi