La luce sugli oceani

Siamo in Australia, subito dopo la fine della Grande Guerra. Tom Sherbourne è un reduce aussie che porta tatuati nel cuore e nella mente gli orrori delle troppe carneficine cui ha dovuto assistere e che per questo accetta la proposta che gli viene fatta di assumere le veci di guardiano del faro nei panorami desolati di Janus Rock, un’isola alla fine del mondo dove spera che il silenzio, l’isolamento assoluto e il contatto diretto con la Natura possano essere gli scenari adatti alla sua condizione di naufrago esistenziale.
Ma nessun uomo è un’isola, si sa. Nei rari viaggi che fa per tornare a terra (lontana ore di navigazione), conosce infatti la bella Isabel che si sbriga a sposare contagiandola col sogno di un tenero romance a due sullo sfondo degli scenari incontaminati della «sua» isola, dove l’amore e l’isolamento possano regalare a lui l’illusione di poter ricominciare una vita sui cocci di quella che la Grande Guerra gli ha sbriciolato e a lei la certezza di una felicità sicura lontano dalle costrizioni sociali dell’epoca.
Quando però due aborti spontanei in rapida successione lasciano intravedere il sospetto di una crisi imminente, ecco che il Caso ci rimette lo zampino regalando ai due un nuovo jolly da giocare sul tavolo del futuro: un giorno la marea recapita sulla spiaggia dell’isola una scialuppa di salvataggio con a bordo una neonata ancora viva accanto al corpo senza vita di quello che si immagina sia stato il padre.
Tom vorrebbe dare retta all’etica e al rigore che contraddistinguono il suo agire, avvisando le autorità sulla terraferma del ritrovamento e facendo così in modo che si avviino ricerche sulla madre della bambina. Isabel invece non ci sta. Nella sua visione distorta di donna dimidiata dal doppio aborto, ritiene infatti che il destino la voglia risarcire con quella creaturina sopravvissuta a un naufragio. E così costringe il marito a tacere allevando la bambina come se fosse figlia loro, ma dando però involontariamente vita a una spirale perversa di eventi destinata a sfociare in tragedia e a separare per sempre quella che sembrava la coppia perfetta capace di vivere d’amore e Natura al riparo dai mali del mondo.
Diretto da Derek Cianfrance, quarantaquattrenne regista del Colorado molto apprezzato in zona Sundance e dintorni per i suoi due primi lungometraggi (l’osannato ma forse sopravvalutato Blue Valentine e il meno riuscito Come un tuono), questo melodrammone in costume pieno di colpi di scena da feuilleton tardo ottocentesco è il suo terzo film ma anche il primo a non essere nato sulla scorta di un suo soggetto originale.
Tratto dall’omonimo bestseller dell’australiana M.L. Stedman e passato in concorso a Venezia lo scorso settembre, La luce sugli oceani avrebbe avuto tutte la carte in regola per diventare un film importante: una coppia di star internazionali del calibro di Michael Fassbender e della svedese Alicia Vikander nei panni dei due mattatori della vicenda, un soggetto destinato ad avere forte impatto sul pubblico per le sue molteplici implicazioni (melo)drammatiche ma anche per la coerenza narrativa coi precedenti due lavori di Cianfrance, la colonna sonora di un esperto di spartiti altamente evocativi quale il francese Alexandre Desplat e soprattutto la chance di essere ambientato in meravigliosi esterni reperiti nel sud della Nuova Zelanda e in Tasmania (e resi potenzialmente sublimi dalla fotografia di un grande nome quale quello di Adam Arkapaw, responsabile delle magie di Macbeth).
Come però spesso accade quando le aspettative sono elevate e si grida al capolavoro annunciato prima di vederne gli esiti sullo schermo, anche in questo caso si finisce col doversi arrendere al verdetto del «molto rumore per nulla». Nelle intenzioni Cianfrance — da lui stesso confermate in molte interviste rilasciate — avrebbe voluto girare un film alla Cassavates su una coppia che scoppia proiettandone il dramma dello sfaldamento su panorami mozzafiato che avrebbero fatto la gioia di David Lean.
In realtà le oltre 200 ore di girato (poi per fortuna ridotte a «sole» due ore e dodici minuti) somigliano pericolosamente a una soap opera patinata in cui le componenti autentiche del melodramma di razza si sfocano col procedere del racconto e finiscono col creare l’effetto contrario cui di solito tende ogni prodotto ascrivibile a questo genere: invece di coinvolgere lo spettatore facendogli percepire come reale il dolore mostrato sullo schermo, l’effetto dominante che l’intera vicenda produce è quello di un misto di irritazione e sbadigli.
I personaggi dei due protagonisti sono infatti poco in linea con le psicologie di individui del primo ‘900: il Tom di Fassbender somiglia pericolosamente a un reduce del Vietnam nella sua volontà di isolarsi dal mondo perché incapace di reinserirsi in un normale contesto sociale a seguito del trauma bellico, mentre la Isabel della Vikander con la sua carica isterica e la sua monomaniaca ossessione riproduttiva è una donna troppo moderna per non stridere nel contesto storico e sociale in cui il personaggio è chiamato a vivere.
E di certo la sceneggiatura non aiuta, contribuendo a ridicolizzare in maniera del tutto involontaria personaggi già di per sé sbozzati male o poco in linea con lo spirito dei tempi. Come, per esempio, quando Isabel sopravvive dopo aver trascorso un’intera notte all’addiaccio fuori dal faro con la sola camicia da notte addosso e nel pieno dell’emorragia che le causerà il secondo aborto spontaneo. O come quando Rachel Weisz — che interpreta il ruolo della vera madre della bambina trovata nella scialuppa — appare per la prima volta in scena e la si vede impegnata a piangere sulla tomba di marito e figlia a pochi metri dalla chiesa dove è in corso il battesimo della figlia di Tom e Isabel (che lei ignora essere la sua bambina ritenuta morta in mare col padre).
E risultati più confortanti Cianfrance non li ottiene nemmeno con l’uso del maestoso paesaggio neozelandese, che nelle intenzioni di partenza avrebbe dovuto essere una specie di protagonista attivo nel lento e macchinoso precipitare degli eventi: se nella parte iniziale l’isolamento e la ruvida bellezza di Janus Rock flagellata dal vento fa da adeguato contraltare visuale alle fratture interiori e al buio della mente che Tom è venuto a curare dando luce al mondo dalla torre del faro, col passare dei minuti l’insistenza immotivata su statiche immagini di grandiosi capolavori della Natura a cielo aperto non ci mette molto a convertire anche il più mozzafiato dei paesaggi da palcoscenico drammatico in selfie autocelebrativo da dépliant turistico.
E in questo non aiuta la colonna sonora di Desplat: cupa e greve per tutta la durata del film e pensata anch’essa come una sorta di «uomo in più» per accompagnare il dramma con note di inquietante premonizione, questo basso continuo a volte quasi fastidioso non fa che accrescere il turgore retorico di cui l’intera operazione trasuda, confermando come Cianfrance si sia perso tra le pagine del romanzo di partenza, senza però riuscire a evitare che il suo film ne fosse una trascrizione troppo incentrata sulla lacrima facile e somigliasse a ciò che non avrebbe mai voluto essere (ovvero una telenovela sudamericana ambientata alla fine del mondo), senza però mai trovare in se stessa la forza per creare i presupposti del melodramma di razza.
Trama
Reduce della Grande Guerra, Tom Sherbourne cerca di trovare consolazione alle ferite interiori che il conflitto gli ha causato accettando di andare a fare il guardiano del faro su un’isola sperduta a sud dell’Australia. Dopo aver sposato la bella Isabel e averla portata con sé sull’isola, la coppia deve prima superare il trauma di un doppio aborto e poi — dopo aver spacciato come proprio un bambino trovato in una scialuppa arrivata dal mare — affrontare un lungo calvario destinato a metterne in crisi per sempre l’unità e l’armonia.
di Guido Reverdito