La legge del mercato
Negli ultimi due decenni, prima e dopo l’epocale giro di boa del nuovo secolo e millennio, il cinema europeo ha saputo restituire – anche attraverso film “di finzione” (ma che si nutrivano avidamente di quanto avveniva nel mondo reale) – la complessità del mondo del lavoro e la sua dimensione più profonda di architrave e collante dell’identità personale e sociale. Se per l’Italia basta pensare, oltre al compianto Mazzacurati, a nomi quali Amelio, Milani, Olmi, Soldini, Virzì, pensando al continente balzano subito in mente gli inglesi Ken Loach e Mike Leigh, gli scandinavi Aki Kaurismaki e Per Fly, e, per il mondo francofono, i francesi Guédiguian e Cantet, il greco ma naturalizzato francese Costa-Gavras, sino, ovviamente, ai fratelli belgi Luc e Jean-Pierre Dardenne.
Sempre dal cinema francese, tradizionalmente molto attento ai temi del lavoro, giunge ora anche questo film di Stéphane Brizé (1966), attore, sceneggiatore e regista, praticamente sconosciuto da noi, qui al suo sesto lungometraggio, che porta alto il vessillo della Palma d’oro per la migliore interpretazione maschile guadagnata a Cannes dal bravo Vincent Lindon (che ha dieci anni più del regista ed era il protagonista anche dei suoi due film precedenti). Si sa che il palmarès di Cannes è spesso accusato di eccessiva francofilia (quest’anno a una francese, Emmanuelle Bercot, è andato anche il premio come miglior attrice); ma, senza voler evocare inutili polemiche, notiamo che forse non è questa in assoluto la migliore performance di Lindon, che personalmente abbiamo apprezzato di più in film come Welcome di Philippe Lioret e, dello stesso regista anche se meno riuscito del primo, Tutti i nostri desideri.
In ogni caso, va detto subito che La legge del mercato si appoggia sin dall’inizio sulle spalle massicce di Lindon/Thierry – un ultracinquantenne da mesi in cerca di nuova occupazione dopo essere stato lasciato a casa dall’azienda – personaggio cui l’attore offre la sua possente fisicità, ma anche una sottile mimica e una inconfondibile maschera di uomo stanco e disilluso (da qui forse i paragoni avanzati dalla critica d’oltralpe con Charles Vanel e persino con Jean Gabin). Con Lindon presente praticamente in ogni inquadratura, il film riesce a reggere sia pure un po’ stancamente sino alla fine compensando con la sua presenza (amplificata dalla scelta di porre intorno a lui quasi tutti attori non professionisti) i limiti, a nostro parere soprattutto di sceneggiatura, del film.
Sin dalla prima scena il film è Lindon e con lui Brizé ci porta subito “in medias res”: Lindon ripreso in piano ravvicinato e di profilo racconta la sua odissea passata e le sue angosce sul futuro mentre, non inquadrato, l’impiegato del “Pole Emploi” non può che ammettere i fallimenti delle politiche formative per gli “esodati”, pur dispensando, per dovere professionale, vaghe speranze. Ponendo al centro del racconto la tematica certo non nuova degli “over 50” espulsi dal lavoro in nome di “crisi” aziendali, spesso funzionali a processi ben conosciuti (come le “delocalizzazioni” verso mercati produttivi meno costosi e privi di ogni forma di regolazione e tutela), il film non può non evocare il confronto con altre opere francesi di questi anni sicuramente più tese ed avvincenti, da A tempo pieno di Cantet (2001) a Cacciatore di teste di Costa-Gavras (2005).
E’ pur vero, d’altro canto, che il regista non cerca affatto di avvincere lo spettatore, ma opta piuttosto per una messa in scena minimalista, di chiara impronta documentaristica, rafforzata dal ricorso quasi costante alla camera a mano (che vediamo spesso basculare, senza peraltro avvertirne la necessità) e, ancor più, dalla scelta di riprendere in molte occasioni le persone in spazi assai ristretti. Le ambientazioni claustrofobiche simboleggiano in modo sin troppo scoperto quel “sentirsi in trappola” di lavoratori (pardon, collaboratori, si capisce sempre più “flessibili” ormai ingabbiati nell’unica “legge del mercato” che sembra funzionare in questi anni: la famosa “guerra tra i poveri”… Anche la fotografia del film riflette significati di tutta evidenza: tutte le sfumature del grigio, a sterilizzare ogni emozione, definiscono gli ambienti organizzativi che punteggiano il calvario di Thierry (l’agenzia di collocamento, la banca, le aule di formazione in cui vanno in scena dei veri giochi al massacro generazionali…), in opposizione ai colori caldi degli ambienti casalinghi o extra-lavorativi; sarà invece poi il bianco accecante dei neon a occupare l’enorme centro commerciale dove l’uomo troverà (peraltro un po’ a sorpresa sul piano della narrazione ) un posto da vigilante.
Ma non è certo questa svolta improvvisa il difetto principale della sceneggiatura, quanto piuttosto, riteniamo, l’aver sacrificato (forse proprio a causa del ruolo assolutamente centrale di Lindon/Thierry) tutti i personaggi e le storie “di contorno” (dalla moglie al figlio disabile, dagli ex colleghi sindacalisti agli educatori della scuola del figlio, ecc.): tutte piste vive e ben tracciate, ma che si perdono puntualmente nel nulla…
A meno che…non fosse proprio questo l’intento del regista (e del suo co -sceneggiatore): enfatizzare la solitudine degli individui come Thierry di fronte ai loro datori di lavoro (e al senso stesso del lavoro, oggi) in una società che alcuni osservatori definiscono come “post-sindacale” (rinvenendo l’inizio del processo, almeno nello scenario europeo, nell’Inghilterra anni ’70 della Thachter). Una società in cui tutti i cosiddetti “corpi intermedi” (partiti, sindacati, associazionismo ecc.) sembrano implodere lasciano uomini e donne, con e senza lavoro, davvero più soli e impauriti (a dispetto di ogni più rosea statistica). Salvo esplodere poi nella violenza, come proprio le recenti cronache di Air France hanno dimostrato…
Nell’epilogo, il gesto silenzioso di Thierry è assai più eloquente di ogni parola. E, pur nella opposta cifra emotiva dei due film, ci ha ricordato quella breve frase (“ci siamo battuti bene”) e quel sorriso calmo, finalmente rappacificato con se stessa e con la sua dignità di persona, di Sandra (Marion Cotillard), l’”eroina” contemporanea di Due giorni, una notte dei Dardenne.
Trama
All’età di 51 anni, dopo 20 mesi di disoccupazione e numerose umiliazioni, Thierry inizia un nuovo lavoro che lo porterà presto a confrontarsi con un dilemma. Cosa sarà disposto a sacrificare per non perdere il proprio lavoro?
di Sergio Di Giorgi