La grande bellezza

Come a tutti i film di cui si parla moltissimo anche se poi nessuno ne sa di fatto alcunché perché la macchina produttiva e la grancassa mediatica che ne telecomandando l’avvento disseminano di tracce impalpabili e fuorvianti (qualche immagine di scena sfuggita intenzionalmente alle maglie del silenzio stampa e la prima scena dello script pubblicata sul sito di Repubblica) il sentiero che porta alla rampa di lancio, anche a La grande bellezza, il sesto film del quarantatreenne napoletano doc Paolo Sorrentino, è accaduta la stessa cosa. Dopo mesi di illazioni, deduzioni, elucubrazioni e indovinelli di ogni tipo, alla sua uscita nelle sale tutti hanno potuto finalmente scoprire quanto lontane dalla realtà fossero le molte supposizioni fatte in relazione alla trama e ai temi portanti che sorreggono le due ore e mezza di pellicola. Capendo così che il film è anche ciò di cui si è a lungo vociferato, ma ugualmente qualcosa di molto più complesso e diverso rispetto alle previsioni.

Al centro della vicenda (costituita da un insieme eterogeneo di “quadri” apparentemente scollati l’uno dall’altro e legati soltanto dalla presenza del protagonista-mattatore in ciascuno di essi) c’è Jep Gambardella: trasferitosi ventiseienne a Roma dalla Campania e con un brillante avvenire di scrittore davanti a sé, spiazza la scena letteraria dell’epoca con un promettente romanzo d’esordio che sembrerebbe far pensare a una carriera folgorante ma che ben presto diventa invece l’eccezione nella regola di una vita intera messa al servizio della cronaca mondana e del gossip antropologico di cui l’ormai ex enfant prodige delle lettere convertito in pubblicista alla moda diventa il ministro indiscusso oltre che una sorta di aedo che ne canta giornalisticamente le miserrime gesta.

Frivolo quanto basta per essere la vittima ideale della vita mondana da cui viene travolto sin dal primo contatto con le mollezze amorali della città eterna, Gambardella dà il benvenuto al pubblico la sera del suo 65esimo compleanno, celebrato in una mega festa che fa da introibo all’intera pellicola introducendo lo spettatore alla variegata corte dei miracoli che ormai costituisce la crema del jet set capitolino. In un tripudio di cafonaggine alla potenza ennesima in cui non manca nulla di tutto di quello che vent’anni di imbarbarimento da berlusconismo becero hanno fatto a un paese privo degli anticorpi morali necessari per reagire all’assalto di un morbo sudbolo come il sogno di arrivare al successo facile e rapido senza averne né i mezzi né le possibilità, questa festa di compleanno passa in rassegna lo sciame di nani e ballerine assortiti che caratterizzano il nostro misero oggi senza prospettive di un domani.

All’elenco non manca davvero nulla: politici corrotti, imprenditori infoiati, soubrette pronte a tutto pur di arrivare in TV, attrici a fine corsa con la sniffata facile (una è una quasi irriconoscibile Serena Grandi in versione drammaticamente extra large), cardinali in odore di soglio pontificio ma rosi nell’intimo dalla mania della cucina (il bellocchiano Roberto Herlitzka), santone che dispensano banalità spacciandole per verità dogmatiche, scrittori falliti che inseguono l’esordio senza aver mai il coraggio di fare il grande salto (un inedito Carlo Verdone grandissimo in un ruolo insolitamente serio e grave), spogliarelliste cinquantenni ossessionate dalla cura del corpo (una Sabrina Ferilli che Sorrentino riesce a sfruttare al meglio dopo che il solo Paolo Virzì sembrava averne capito le grandi potenzialità di attrice drammatica), poeti muti, signore della Roma bene, nobilastri che si fanno affittare per fare da tappezzeria araldica alle feste, ninfomani miliardarie e una vera nana nei panni della direttrice del quotidiano per cui il protagonista scrive le sue cronache del nulla in fuga.

La vita di Gambardella (il cui attico a pochi metri dal Colosseo con vista da brivido ricorda forse non a caso la casa di un noto politico che ne ebbe in dono uno simile senza sapere chi gli avesse regalato un simile ben di dio immobiliare) è una compiaciuta via crucis da una festa di questo genere all’altra, anche se il suo essere parte integrante dello scenario mefitico in cui è immerso non gli impedisce di fustigare con ferocia le altrui mancanze né di assistere impietrito al continuo scivolamento verso il basso dell’umanità all’ablativo che lo circonda e che si specchia in una metropoli (una Roma di straziante bellezza fotografata dal fido Luca Bigazzi come non si vedeva da decenni) ormai col fiato corto anche se sempre capace di tirare fuori dalla manica qualche asso imprevedibile.

Ma credere che La grande bellezza sia tutto qui, che cioè si riduca a questo frullato di festaioli attempati che nascondono il niente che li assedia nell’intimo cercando di esorcizzarlo con iniezioni di vita vera inventata per scopi ludici sarebbe alquanto riduttivo. Il film è anche questo, così come è anche il ritratto di una città che, già rappresentata infinite volte al cinema nella sua multiforme natura di vestale deviante che travia i deboli con dolcezza e piega i più forti seducendoli col suo tocco languido, ha sedotto anche un autore anomalo e originale come Sorrentino, trascinandolo suo malgrado nel limo un po’ anonimo in cui anche le voci meno omologate finiscono con l’intonare lo stesso peana celebrativo un po’ monotono e impersonale. Un ritratto di signora in via di sfacimento che ha fatto pensare a molti al precedente più nobile in materia, ovvero a quella dolce vita felliniana che della Roma di un’altra èra era stato il vangelo indiscusso.

I tempi sono però cambiati e forse è davvero eccessivo scomodare il maestro riminese per un paragone indebito nel quale la sola cosa che si possa accettare come valida è la presenza di una città il cui respiro antico fa da colonna sonora costante allo sbattersi vacuo e vano dell’umanità che ne popola sudaticcia e volgare i comizi notturni e i salotti “bene” pieni del meglio del peggio in commercio. Ma quel mondo che si affacciava dalle miserie del dopo guerra nel salotto buono del benessere economico e si preparava a vivere gaudente il tripudio del boom dei primi anni ’60 non ha nulla a che vedere con lo spaccato di becerume assortito che Sorrentino cuoce a fuoco lento nel suo calderone di immagini. E a poco vale che il regista napoletano strizzi l’occhio qua e là a quel capolavoro sperando forse che lo spettatore si lasci irretire e caschi nell’inghippo.

La grande bellezza è in realtà un testo molto più articolato e ambizioso di quanto sia le anticipazioni che gli spezzoni di trailer sparsi in giro per l’etere nelle ultime settimane avrebbero potuto far pensare fosse. Specchiandosi nella figura del suo protagonista (che, come in quasi ogni altro film di Sorrentino ha il volto grave di Toni Servillo, ormai arrivato a vertici interpretativi sommi), la sceneggiatura indaga infatti su temi che hanno poco a che vedere con la descrizione della crisi morale e civile che caratterizza l’oggi della capitale di un paese che, a sua volta, è il corifeo di una tragedia globale che attanaglia il mondo. Jep Gambardella, cronista del vuoto mondano, è infatti ossessionato dall’idea del fallimento e della delusione. Non a caso a tutti i personaggi che gli vorticano intorno e che gli chiedono come mai non abbia più scritto un libro dopo il folgorante esordio giovanile de L’apparato umano, risponde sincero di aver scoperto di non avere più molto da dire, ma anche di aver deluso tutti e sopratutto se stesso.

La sua afasia letteraria – controbilanciata dall’incessante logorrea che caratterizza ogni personaggio attento a nascondere il proprio fallimento esistenziale dietro cortine di vacui monologhi travestiti da scambi di battute – è forse la chiave di lettura più autentica dell’intera operazione tentata da Sorrentino: ovvero quella dimostrare come l’Italia e gli italiani di quarant’anni fa fossero materia degna per un romanzo di analisi sociale, mentre la cafonaggine becera dei giorni nostri può essere all’altezza soltanto delle cronache del gossip, vera pietra tombale di ogni ambizione letteraria. Quando, alla fine, Gambardella incontra una santona centenaria la quale gli rivela che il segreto della vita è quello di non allontanarsi mai dalle proprie radici, soltanto allora sente rinascere dentro di sé l’ansia creativa. E non a caso sale su un traghetto e torna nel suo Sud alla ricerca in salsa vagamente proustiana di un passato incontaminato che possa sopravvivere se recuperato sulla carta e faccia da antidoto alle piaghe irriferibili del presente.

Al fallimento esistenziale e umano che caratterizza quasi ogni personaggio fa poi da contraltare il tema dello sfacimento fisico che ha nella morte il suo compimento ultimo. E se è vero che per tutto il film non c’è individuo che non finga di sprizzare vitalità – protagonista compreso -, anche se di fatto si tratta di una pura recita inscenata per esorcizzare l’horror vacui interiore, è anche innegabile che la morte attraversa l’intera sceneggiatura ricordando a tutti la propria presenza senza mai smettere di fare da personaggio muto. A partire dalla sequenza d’apertura con la morte improvvisa per infarto di un turista giapponese, scena che soltanto una lettura superficiale può spingere a interpretare come un simpatico siparietto, laddove si tratta invece di un preciso monito che Sorrentino (qui anche autore di soggetto e sceneggiatura insieme a Umberto Contarelli) lancia al pubblico per avvisarlo del ruolo che la morte avrà nel resto della pellicola.

Sbilanciato nello spazio dedicato al protagonista e ai comprimari (col primo che giganteggia per due ore e mezza mentre alla pletora dei secondi spesso non resta che il tempo di una comparsata troppo estemporanea per poterli mettere a fuoco come personaggi a tutto tondo) e con una sceneggiatura che procede per accumuli e non si cura se non in maniera marginale di privilegiare la coerenza a scapito degli effetti e dei colpi di teatro, La grande bellezza ripropone tutti i tic stilistici e gli stilemi filmici cari a Sorrentino. Ovvero la tendenza all’accumulo barocco in cui il gusto per l’immagine ieratica e la lenta indagine introspettiva nei meandri dell’animo umano non sono mai fini a se stessi, ma servono a scavare il reale attraverso la lente deformante dello sguardo di un determinato personaggio scelto come filtro di quella stessa realtà che è l’oggetto vero del racconto.

Accolto a Cannes con freddezza comprensibile dalla critica la sera della proiezione riservata alla stampa e frettolosamente stroncato dai Cahiers, La grande bellezza – unico film italiano in concorso nella selezione ufficiale del festival in Costa Azzurra — rischia forse di pagare il dazio che tocca a tutti i prodotti carichi di un eccesso di motivate ambizioni e nati dalla mente di un autore a sua volta quasi costretto ad alzare l’asticella più di quanto la sua stessa felicità creativa gli possa permettere di fare. Sorrentino, con tutti i difetti che questo suo enigmatico e a tratti arduo film può far fatica a nascondere, ha il coraggio di osare là dove la maggior parte dei registi a lui coevi e attivi dalle nostre parti (con la sola eccezione di Matteo Garrone) non hanno nemmeno la forza mentale per poter sognare di spingersi.

Trama

Arrivato alle soglie della pensione dopo una vita spesa a raccontare il nulla dell’effimero ma con alle spalle anche un grande romanzo agli esordi che ne aveva annunciato una fulgida carriera poi ben presto abortita, il giornalista  tuttologo e re della mondanità Jep Gambardella esercita la sua professione di cronista sempre sulla cresta dell’onda saltabeccando da una festa all’altra per raccontare la deriva morale e antropologica di un paese che cerca di sopravvivere a se stesso in un delirio onnivoro di vacuità assortite. Sullo sondo una Roma bellissima che assiste indifferente a questo deragliamento amorale opponendo la statuaria meraviglia dei suoi tesori paesaggistici e artistici alla desolazione umana che la circonda.


di Guido Reverdito
Condividi