La foresta dei sogni

Fulcro dell’ultimo lavoro di Van Sant è, in un certo senso, il genius loci della grande e rigogliosa foresta giapponese di Aokigahara, dove la vicenda si svolge: luogo assieme fascinoso e maledetto, è noto – realmente – per essere la meta prediletta degli aspiranti suicidi di ogni dove.

Il protagonista Arthur, professore di fisica, ha un matrimonio problematico alle spalle e un dolore indicibile e tormentoso dentro di sé. Fa un biglietto di sola andata per il Giappone e poi, con una confezione di pillole e una bottiglietta d’acqua, si incammina risoluto nel verde cupo e vibrante della foresta, deciso a porre fine alle sue sofferenze. Ma qui incontra Takumi, un uomo che vaga tra gli alberi con i vestiti laceri e i polsi tagliati, nel tentativo disperato di ritrovare l’uscita da quello che ormai sembra essere diventato a tutti gli effetti un ingannevole e inquietante labirinto.
Questo incrocio di destini segnati dal dolore sarà, per Arthur, l’occasione – necessaria – per tornare a riflettere sul proprio percorso di vita, sulla sua capacità di relazionarsi all’altro, sulla percezione che ha di se stesso.

Van Sant si muove da sempre con disinvoltura tra cinema mainstream e autoriale, alternando opere personalissime e radicali ad altre ben più “addomesticate” e levigate per i gusti del vasto pubblico. In questo caso tuttavia il discorso si fa piuttosto critico, perché La foresta dei sogni non è solo un film che si sviluppa seguendo un tracciato prestabilito e, purtroppo, per certi versi scontato. Il leitmotiv romantico che fa da collante alla narrazione – e prende corpo attraverso una serie di flashback – è decisamente sbilanciato sul versante del melodramma, mentre le sovrapposizioni tra reale e fantastico – anziché aprire gli orizzonti per accogliere il misterioso e l’imponderabile  – finiscono in ultimo per sottrarre credibilità all’intera operazione.

Non bastano la solida presenza del pur bravo McConaughey e le ripetute incursioni cariche di tensione di Naomi Watts, se infine ogni cosa viene appiattita, banalizzata e ricondotta a uno schema sterile pensato a priori: la crisi coniugale, il tradimento, l’egoismo, e infine il ripensamento e l'(auto)assoluzione. Neppure il personaggio del giapponese Takumi, tenuto purtroppo a margine, riesce a vivificare questo stato di cose: quello che avrebbe potuto essere un profondo, significativo incontro umano, viene letto come un confronto tra culture risolto tuttavia in maniera piuttosto spicciola e sbrigativa.

Resta la bellezza perturbante e avvolgente di Aokigahara a catalizzare l’attenzione, a imporsi allo sguardo: un luogo che è assieme, paradossalmente, di pace e afflizione, angoscia e armonia. Restituito, va detto, con immagini fortemente espressive e suggestive, capaci di esaltare la meraviglia di una natura imponente, che appare a tratti placida e a tratti sinistra e minacciosa.

Sarebbe forse bastato un passo in più in questa direzione per illuminare il film di una luce diversa, più autentica e sobria, tacitando quella tendenza zuccherosa e didascalica che è forse l’aspetto che più lo danneggia. Perché anche quando Van Sant ha voluto mettere da parte la ruvida freschezza degli esordi (Mala Noche, Drugstore Cowboy), ha sempre mantenuto una buona dose di solidità e coerenza (pensiamo al recente Promised Land). Ma stavolta, la scelta – condivisibile o meno – di attenersi a un modello narrativo classico e scegliere un linguaggio piano, smussando lo stile per non graffiare, non giustifica certe debolezze del film, che appaiono tali soprattutto se considerate alla luce delle (notevoli, indiscusse) capacità autoriali di Van Sant.

Trama

Arthur è tormentato da un dolore che non riesce a lenire, per questo si reca nella foresta giapponese di Aokigahara, ai piedi del Monte Fujii, suggestiva meta prediletta dagli aspiranti suicidi di ogni dove. Sarà l’incontro casuale con Takumi, smarritosi nella fitta boscaglia, a offrire ad Arthur l’occasione per mettere in discussione il suo percorso di vita e dunque anche i suoi più neri propositi.


di Arianna Pagliara
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