La corte
Xavier Racine, Presidente di Corte d’Assise a Saint Omer, piccolo centro nel nord ovest della Francia nei pressi di Calais, ha un soprannome che la dice tutta sul suo modo di intendere la Legge e la sua applicazione: a Palazzo di Giustizia colleghi e sottoposti (coi quali non fa mai comunella e che non perdono occasione di farsi beffe di lui) lo chiamano infatti «il giudice a due cifre» perché ogni processo che presiede non si conclude mai con condanne inferiori a dieci anni.
Reduce da un recente divorzio che lo costringe a vivere in una squallida pensioncina, Racine è un uomo la cui vita fortemente routinaria si identifica integralmente con la professione. Avvolto in una vistosa sciarpa rossa che è il suo modo per evitare che la gente concentri la propria attenzione sul suo modo di vestire privo di gusto, ogni giorno si reca in tribunale (dove tutti ne temono il carattere scontroso e gli atteggiamenti assurdamente pignoli in aula) trascinandosi dietro un goffo trolley coi documenti necessari per le udienze.
Quando lo incontriamo per la prima volta è in preda a un fastidioso attacco di influenza che lo costringe ad andare al lavoro anche se ha 40 di febbre. Non può esimersi dal farlo perché quel giorno ha inizio un processo sulla bocca di tutti: alla sbarra c’è infatti un giovane padre accusato di aver ucciso a calci la figlioletta di sette mesi, incapace di sopportarne il continuo pianto (che poi, nel corso delle varie udienze, verrà spiegato come la manifestazione tipica di dolori addominali dovuti alla stenosi del piloro).
Fin qui tutto bene. Se non fosse che nel momento in cui vengono estratti a sorte i membri della giuria che dovrà emettere la sentenza finale, Racine è folgorato alla vista di una bella donna di mezza età che attraversa regale l’emiciclo della corte e va a prendere posto tra i colleghi selezionati. Lo spettatore in quel momento non sa chi sia, ma di lì a non molto scoprirà che si tratta di un medico danese da vent’anni in Francia di cui il giudice si era perdutamente innamorato sei anni prima quando era stato da lei curato a seguito di un gravissimo incidente d’auto di cui era stato protagonista.
Da quel momento in poi il film imbocca due strade narrative parallele che solo in parte sembrano viaggiare su binari destinati a non incontrarsi mai: da un lato ci sono infatti le udienze relative al processo a carico del presunto infanticida nella migliore tradizione del court room movie, mentre dall’altro c’è la delicata storia d’amore in punta di piedi tra il giudice e la bella danese in perfetta linea con una tendenza ormai tipica del cinema di questi anni, attento a indagare le fibrillazioni sentimentali di quelle generazioni che affrontano le relazioni affettive senza colpi di testa ma lasciando che la mente le porti con giudizio là dove il cuore le vorrebbe trascinare con l’impeto tipico dei vent’anni.
E la potenza di questa gradevole commedia sta quasi integralmente nell’armonico alternarsi delle due forze in campo: pur essendo a tutti gli effetti un film che si svolge quasi per intero all’interno di un’aula di tribunale e che fonda la maggior parte della sua credibilità narrativa sulla lenta ma inesorabile ricostruzione (ricca di piccoli colpi di scena) di come siano veramente andate le cose, quello del processo risulta alla fine essere un gigantesco pretesto per disegnare due caratteri a tutto tondo chiamandoli a esigere dalla Vita un risarcimento affettivo per esistenze segnate da delusioni affettive (lei, divorziata e con due figli) e da congenite incapacità relazionali (lui, misantropo e solitario fino al parossismo).
Una struttura questa che è solo apparentemente semplice e basica (specie se analizzata in maniera superficiale per l’evolversi di situazioni ordinarie fino alla banalità che ne costituiscono l’ossatura di base), in una sceneggiatura che ha il pregio non indifferente di saper rendere tutto facile amalgamando al meglio la vicenda di pubblico dominio con quella dell’intimità privata. E non è un caso che il testo scritto da Christian Vincent (anche regista del film) sia stato premiato a Venezia come il migliore tra quelli incentrati su soggetti originali.
Ma se i due personaggi principali — che di fatto dominano la pellicola finendo col relegare ai margini il MacGuffin di hitchkochiana memoria che è il processo penale — non fossero stati affidati ad attori in grado di valorizzare al meglio la costruzione teorica dei loro caratteri volta a creare individui a tutto tondo vivi come persone reali, La corte (che la distribuzione nostrana ha penalizzato nel titolo tradendo l’originale francese — L’hermine, ovvero l’ermellino simbolo della professione del giudice — e spostando l’attenzione dal personaggio del protagonista al tema del processo) non avrebbe forse quella capacità di entrare nell’animo dello spettatore che invece dimostra di avere.
Di un attore del calibro di Fabrice Luchini (il cui giudice Racine — nomen omen già di per se stesso e che richiama forse non del tutto involontariamente il recente Molière in bicicletta — è destinato a rimanere impresso nella memoria per la sua incredibile capacità di disegnare un carattere con soli impercettibili movimenti facciali e per il quale non a caso la giuria di Venezia lo aveva insignito della Coppa Volpi come migliore interpretazione maschile in un ruolo da protagonista) non c’è molto da dire se non il fatto che qui non esagera in istrionismi come a volte gli è capitato negli ultimi film in cui ha lavorato.
E se Luchini non esagera in gigionismi di maniera finendo quasi col fare il verso a se stesso, può di certo ringraziare il regista Christian Vincent col quale vi è un sodalizio ormai quasi quarantennale. A questo proposito, se non basta ricordare che l’esordio dietro la macchina da presa del sessantenne regista e sceneggiatore parigino era stato un corto dal titolo Il ne faut jurer de rien che, guarda caso, vedeva un giovanissimo Luchini nei panni del protagonista, è impossibile trascurare che il successo internazionale gli era arrivato con La timida, magnifica commedia del 1991 con ancora Luchini mattatore nei panni di uno scrittore che si voleva vendicare in maniera letterariamente cerebrale di un insuccesso amoroso.
La scoperta autentica è invece la dottoressa di cui il giudice Racine si innamora trovando in lei una possibile uscita d’emergenza dall’impasse esistenziale in cui la Vita lo ha relegato. Sidse Babette Knudsen è un’attrice danese quasi cinquantenne che il pubblico appassionato di prodotti televisivi di qualità può aver apprezzato nel ruolo di primo ministro nella serie TV (danese anche quella) Borgen, ma che aveva già bazzicato i piani alti del cinema engagé che dalle sue parti ruota intorno ai fumismi del gruppo Dogma, e che in molti avevano comunque già notato in Dopo il matrimonio di Susanne Bier.
Quando il processo si conclude (ma non è bene anticiparne l’esito giudiziario perché l’intero iter in aula è una delle componenti più importanti dell’intera sceneggiatura) e il giudice riesce finalmente a esternare ciò che prova per la bella dottoressa danese, vedendola ricomparire del tutto a sorpresa all’inizio di un nuovo processo e capendo di averla conquistata, la camera zooma sul suo bellissimo viso di cinquantenne consapevole della propria avvenenza sul viale del tramonto, ma anche della chance che la vita le ha offerto per ricominciare da capo a credere in se stessa.
E il sorriso di leonardesca ambiguità che le si allarga lentamente sulle labbra è il suggello migliore a un film capace di non far sembrare melensa un vicenda che, se fosse stata trattata in maniera diversa, avrebbe rischiato di essere confusa con la melassa tipica del cinema americano medio basso quando cerca di raccontare gli amori presenili e lo fa per correttezza politica nei confronti di una categoria più che per convinzione di saper narrare per immagini una storia che sappia emozionare pur non potendo contare su budget faraonici né su soggetti particolarmente travolgenti.
Trama
La tediosa routine esistenziale di Xavier Racine, integerrimo e temutissimo Presidente di Corte d’Assise di un piccolo centro nel Nord della Francia, viene sconvolta dalla ricomparsa improvvisa di una dottoressa di cui si era segretamente innamorato quando sei anni prima era stato suo paziente a seguito di un grave incidente stradale.
di Redazione