La canzone perduta

La tragedia dei curdi, l’alienazione metropolitana, un villaggio smarrito nella memoria, una lingua cui aggrapparsi per conservare e tramandare la propria identità culturale. Ma anche una meditazione sull’amore filiale. La canzone perduta di Erol Mintaş, scrittore curdo qui al suo esordio nel lungometraggio, racconta con pudore e consapevoli omissioni la solitudine e la confusione esistenziale dei curdi nella Turchia di oggi.
Nella periferia di Istanbul vivono Ali, scrittore e insegnante di curdo, l’anziana madre, Nigar, che coltiva il sogno di un impossibile ritorno nel villaggio e cerca inutilmente una vecchia canzone scolpita nella sua memoria, e Zeynep, la fidanzata di Ali, in attesa di un figlio. In questo cornice familiare, la questione curda resta nelle retrovie. Ma la situazione che i tre vivono è una conseguenza del dramma curdo, anche se i protagonisti non ne parlano mai apertamente. E in loro il livello di consapevolezza è molto differente.
L’insegnate scrittore affida alla lingua curda, nella narrazione e nella parola scritta, le proprie radici. Insegna curdo in un clima di pesante sospetto, scrive libri nella propria lingua nativa, racconta ai bambini favole sul tema della diversità, come quella del corvo che vuole rassomigliare al pavone, ma recalcitra di fronte all’idea di diventare padre. L’anziana madre, costretta a spostarsi dal quartiere dell’originario insediamento curdo di Istanbul, Tarlabasi, in una periferia fatta di palazzoni e priva di qualunque identità, perde progressivamente senno e crede che le persone che non incontra più abbiano fatto ritorno al villaggio. Quotidianamente imballa gli oggetti che debbono accompagnarla nel viaggio di ritorno. La sua alienazione segue un corso inarrestabile. La “canzone perduta” del titolo non è altro che la tessera di un mosaico linguistico a rischio di distruzione, espressione di una cultura globale. Canzone-lingua-cultura: un intero sistema antropologico rischia di soccombere.
In una sorta di limbo culturale vive invece Zeynep, una giovane curda naturalizzata turca, che parla solo turco, e non è consapevole della mancanza di radici culturali. Tuttavia Zeynep non si appaga della nuova identità di integrata e cerca di creare attorno a sé qualcosa di suo: sogna una famiglia, vuole un marito ed è ben intenzionata a tenersi il bambino di cui è in attesa nonostante la freddezza dell’uomo riguardo alla gravidanza.
La canzone perduta è un convincente esempio di quel cinema povero che ha messo profonde radici tra Turchia e Iran, girato con luci naturali e con la macchina da presa in spalla; ha i tempi lunghi suggeriti dall’uso del piano-sequenza. All’inizio è ambientato nel quartiere curdo di Tarlabaşi e successivamente nei nuovi sobborghi periferici di Istanbul con i grattacieli che segnano l’orizzonte. Il contrasto tra questi due diversi scenari è il materiale visivo fondamentale. Per seguire Ali e Nigar il regista utilizza la camera a spalla, cercando di rendere il contrasto tra i loro diversi ritmi di vita. La madre viene ritratta in ambienti chiusi e ridotti, molto statici. Ali invece è sempre di corsa e di corsa si muove la macchina da presa che lo pedina.
Mintaş nasconde allo spettatore un pezzo di storia che pochi conoscono. Questa storia il film non la riassume neppure con una didascalia iniziale, anche se è poco nota. Il popolo curdo è il più numeroso al mondo senza una patria ed è stato oggetto di un tentativo di genocidio e numerose persecuzioni che hanno costretto la maggior parte dei curdi a vivere al di fuori dell’area del cosiddetto Kurdistan, estesa tra Turchia, Iraq, Iran, Armenia e Siria. Il film non racconta nulla di questa storia lasciando disorientati gli spettatori ignari della causa curda e sorprendendo anche chi segue le cronache internazionali (chi scrive si è stupito del fatto che il film sia coprodotto dal Ministero della cultura turco). E’ una scelta singolare e orgogliosa, quella di Mintaş, opposta a quella del film di denuncia che probabilmente nella Turchia di Erdogan non si può fare, ma che indubbiamente viene pagata in termini di comprensione e di diffusione del prodotto.
La canzone perduta ricostruisce il quotidiano di una realtà di sofferenza. Esalta il pudore dei personaggi, la profondità dei sentimenti, un’indomita forza interiore in un processo di sintesi e di distanziamento che dà al film quasi la cadenza della fiaba. Il rischio in agguato, e non sempre evitato, soprattutto nella seconda parte, è quello della dispersione, della ripetizione e dell’inerzia drammatica. In filigrana, ma solo in filigrana, si possono vedere inquietanti cartoline dalla Turchia di Erdogan. Come nella breve sequenza, inserita in un racconto di ordinaria quotidianità, in cui Ali vede recapitarsi dal direttore della scuola una lettera dove gli viene richiesto di scrivere una difesa per aver partecipato a uno sciopero. O come la scena dell’ispezione della polizia in classe, mostrata come perfettamente riassorbita nell’ordinario della scuola. In questi momenti Erol Mintaş mostra una notevole sobrietà d’approccio e la capacità di dare profondità a un cinema politico che sfugge alle secche della polemica. La tragedia di un popolo, il suo desiderio d’identità e la disperata ricerca di continuità culturale emergono in superficie e lasciano il segno.
Trama
Costretto a lasciare il proprio villaggio a seguito di persecuzioni contro i curdi, Ali vive con l’anziana madre a Istanbul da molti anni. Insegna lingua curda ai bambini e scrive libri nel proprio idioma nel tentativo di conservare un’identità culturale. Sua madre Nigar non si arrende all’idea di vivere in città e ogni mattina si sveglia decisa a ritornare al proprio villaggio. La sua alienazione segue un processo inarrestabile.
di Giorgio Rinaldi