La buca
A leggere le dichiarazioni contenute nel pressbook del suo secondo film La Buca, per Daniele Ciprì “Armando (Rocco Papaleo, ndr), che ha subìto l’ingiustizia di anni di galera, potrebbe essere “il figlio” del mio precedente lavoro”. La rivendicazione di una continuità con E’ stato il figlio, il suo primo lungometraggio da regista (dopo la separazione con Franco Maresco) è, beninteso, legittima, ma a nostro avviso non molto convincente.
In quella prima regia da solista, accolta in concorso a Venezia nel 2012, Ciprì aveva voluto recuperare ad ogni costo, quindi anche con qualche forzatura e ridondanza, quello specifico universo visivo e narrativo forgiato insieme a Maresco negli anni del lungo sodalizio (peraltro, la Palermo sottoproletaria anni ’80 veniva ricreata, per motivi economici, nelle periferie di Brindisi). Nondimeno, il film aveva numerosi pregi tra cui, oltre al peculiare stile e talento fotografico di Ciprì, una storia forte (ispirata a un romanzo dello scrittore palermitano Roberto Alajmo che collaborava alla sceneggiatura insieme allo stesso regista e a Massimo Gaudioso), parecchie sequenze geniali, un sottofinale tanto spiazzante quanto travolgente, un finale sospeso.
Al contrario, in questa seconda prova, e per sua stessa ammissione, Daniele Ciprì ha voluto voltare pesantemente pagina e soprattutto “dimenticare Palermo”. Esigenza anch’essa legittima e pure comprensibile. Forse però, almeno a giudicare dagli esiti, i riferimenti erano un po’ troppo ambiziosi. Sempre secondo il press-book il regista ha detto di aver voluto omaggiare la commedia classica (dei Lubitsch, Capra, Wilder, Edwards, ma anche dei nostri De Sica, Risi, Monicelli) ma pure realizzare “un’opera che ricordasse quelle storie…con leggerezza e ironia…allontanandomi completamente dalla commedia italiana d’oggi”. Per marcare questa distanza, il regista sceglie dunque programmaticamente di ambientare la storia “in una metropoli immaginaria”, creando “un senso di astrazione”. Ma questo da solo non basta a generare nello spettatore una vera “sospensione del giudizio” e rischia invece di lasciarlo un po’ incredulo nell’assistere a un film che alterna di continuo atmosfere del passato e del presente, tra i fondali degli esterni e gli interni d’epoca, i costumi per lo più vintage, come del resto le musiche originali, ricche di sonorità jazz, di Pino Donaggio e i suoi chiaroscuri fotografici (“ho girato il mio film in pellicola e lo definirei quasi un disco in vinile”, ha del resto affermato il regista).
Ancor più ambizioso appare il richiamo (sono sempre dichiarazioni del regista) a coppie celebri del cinema (Lemmon/Matthau, Gassman/Mastroianni). Sergio Castellitto e Rocco Papaleo sono sì una “strana coppia”, ma (a dispetto di qualche scoperta citazione) più che altro per il rispettivo diverso profilo e standing professionale. Sebbene vada a volte in “overacting”, Castellitto è ammirevole nella sua ricerca di riproporre l’eredità dei gesti e della mimica di Alberto Sordi (comunque ben presente nelle sue corde attoriali); mentre Papaleo, al di là delle esigenze del ruolo, ci appare per lunghi tratti ingessato e assai poco espressivo.
Sul piano narrativo, tutto nasce dall’incontro casuale tra l’avvocato truffaldino Oscar (Castellitto) e l’ennesima vittima designata Armando (Papaleo), reduce da 25 anni di galera e nullatenente. E’ allora dunque che Oscar decide di puntare in alto, a una causa per risarcimento danni per l’ingiusta detenzione di Armando (il risarcimento giudiziario era in realtà un tema portante anche nella vicenda di E’ stato il figlio). Ma il rapporto di sfruttamento, poi di complicità, a tratti persino di amicizia tra i due, non riesce ad affrancarsi da stilemi e gag, che spesso travalicano nella caricatura e nella risata facile cui aspira la commedia commerciale, più che quella “all’italiana”. In particolare, il personaggio di Oscar mantiene i tic, il gergo e le inflessioni tipici del milieu dei legulei romaneschi (mentre non deve ingannare la presenza incombente nel manto stradale della grossa buca del titolo, riscontrabile anche nelle metropoli del Nord…).
Ai due uomini, offre alternativamente sponda il personaggio di Carmen, dolce e comprensiva gestora del “bar della porta accanto”. Purtroppo, la Valeria Bruni Tedeschi si offre qua nella consueta maschera di donna un po’ triste e svagata in cui la maggior parte dei registi ama rinchiuderla (ma abbiamo visto nei film da lei stessa diretti, come nel recente Un castello in Italia, tra quali e quanti registri sia in grado di muoversi…)
Nonostante l’ambientazione astratta, è chiaro che Ciprì intende parlarci degli eterni vizi italici: l’inganno, la truffa, la celebre ”arte d’arrangiarsi”, ma anche quel cinismo e ”indistinzione etica” che tende a accomunare oggi carnefici e vittime (molto spesso false). Ma tutto questo, insieme alle motivazioni dei personaggi principali, resta a un livello sostanzialmente descrittivo, anche nelle sequenze del processo, dove si condensano rivelazioni e ribaltamenti dei ruoli più o meno prevedibili. E il film non mostra mai nemmeno una punta di vera cattiveria o di cinismo, che nascono di solito da una reale disperazione e su cui anche la commedia di costume ha saputo fondare le sue storie.
Si dirà, che non era certo questa l’intenzione. Il cagnolino che muove sin dall’inizio le fila del racconto, “emblema dell’amicizia autentica”, nel film si chiama “Internazionale”. E il film punta, magari a ragione, a far breccia anche sui mercati esteri, nel solco di quei buddy movies ispirati alle storie di amicizia maschile.
A noi resta l’impressione di un film non riuscito, anche se va dato atto al regista del coraggio dimostrato nell’intraprendere nuove strade. Sarà poi il giudizio del pubblico a dire se Daniele Ciprì avrà scelto o meno la strada giusta.
TRAMA
Un cagnolino diventa il pretesto dell’incontro di due umanità disordinate e precarie. Morso dall’animale, Oscar (Sergio Castellitto), avvocato burbero sempre alla ricerca di spunti truffaldini, vuole trarre profitto dall’incidente e fare causa al malcapitato proprietario, Armando (Rocco Papaleo). Quando però lo scaltro avvocato scopre che Armando è in realtà un povero disgraziato appena uscito di galera dopo aver ingiustamente scontato una lunga pena, l’obiettivo cambia e la posta in gioco si alza: perché non intentare una causa milionaria ai danni dello Stato?
di Sergio Di Giorgi