L’odore della notte
La recensione di L'odore della notte, di Claudio Caligari, a cura di Guido Reverdito.

Tra il 1979 e il 1983 alcuni quartieri “bene” della Roma che conta furono terrorizzati dalle scorribande di una gang di delinquenti che seguiva le proprie vittime, le costringeva a salire in casa e poi ne razziava gli appartamenti brutalizzando con ferocia i malcapitati. Di qui l’inquietante nomignolo di “Banda dell’Arancia Meccanica” che le cronache si sbrigarono ad affibbiare al gruppo per la ferocia con cui agiva.
A raccontare le gesta della banda fu il giornalista e scrittore Dido Sacchettoni che nel 1986, dopo una serie di fitti incontri in carcere con l’ex poliziotto e leader del terzetto di violenti rapinatori, col romanzo-verità Le notti di Arancia meccanica diede dignità letteraria a un gruppo autore di più di 700 rapine ai danni non solo di gente comune, ma anche a noti vip della capitale (famosa quella subita dall’attore Fabio Testi, sequestrato in casa con la moglie incinta di sei mesi).
Da questo libro partì, dodici anni dopo, Claudio Caligari per girare L’odore della notte, suo secondo film da regista, dopo una lunga gavetta in qualità di documentarista e l’esordio fulminante con Amore tossico nel 1983. A mezzo secolo di distanza, quel neo-noir provocatorio e violento carico di colte citazioni cinefile torna in questi giorni nella sale dopo il restauro che ne ha riportato alla luce esaltandoli al massimo nella magnificenza cromatica del 4k tutti i moltissimi pregi registici e non.
Claudio Caligari – con soli tre film al proprio attivo (ma con almeno altre dieci sceneggiature pronte per passare in produzione ma mai arrivate a superare la fase del progetto) –, era un cantore anomalo degli ultimi e degli underdog lasciati ai margini dalle accelerazioni della società capitalistica. Un battitore libero che aveva costruito una propria identità intellettuale facendo sua la lezione del Pasolini neorealista ma anche quella della nouvelle vague francese e della nuova Hollywood degli anni ’70.
L’operazione del restauro de L’odore della notte e la sua riproposizione in sala va quindi salutata come un atto dovuto. Una riscoperta per quelle generazioni che non abbiano mai sentito parlare di Caligari (non ostante Non essere cattivo, suo terzo e ultimo film completato praticamente sul letto di morte, sia uscito nel 2015). Ma anche per chi i suoi film li abbia visti eccome e ancora si domandi cosa avrebbe potuto fare uno come Caligari se il suo rapporto con l’industria del cinema fosse stato improntato a un approccio meno barricadero e antagonistico di quanto non sia stato.
Un quesito questo che non può non assillare la mente di chiunque (ri)veda oggi sul grande schermo L’odore della notte nello splendore abbacinante del 4K: un poliziesco sporco e cattivo che sembra scritto e diretto oggi per la ferocia con cui delinea i guasti di una società i cui squilibri di classe e le disparità di accesso al benessere fanno da detonatore a rabbia cieca destinata a sfociare nella barbarie della delinquenza. Che qui ha il volto scavato e sofferto di un giovanissimo Valerio Mastandrea in una delle interpretazioni più iconiche e drammatiche di una lunga carriera lanciata proprio da questo film.
Ma L’odore della notte è anche destinato a diventare un classico di culto imponendosi come saggio su come si possa fare cinema di genere anche dalle nostre parti attingendo al meglio della tradizione (da Melville filtrato attraverso Truffaut per passare allo Scorsese di Mean Streets e Taxi Driver con il poliziottesco di Di Leo a fare da tramite), senza però mai rinunciare a sporcarsi le mani raccontando la cruda realtà dei fatti con un’insolita coerenza di stile rimasta inalterata negli anni e non ostante una filmografia ridotta all’osso.

di Guido Reverdito