L’esorcista

La recensione di L'esorcista, di William Friedkin, a cura di Gianlorenzo Franzì.

Forse oggi potrà non fa paura come quando uscì, nel 1973, quando fuori dalle sale accorrevano le ambulanze per i malori del pubblico; e probabilmente il regista, William Friedkin, per alcuni ha saputo essere più duro (Il Braccio Violento Della Legge), più sfumato o crepuscolare (Vivere e Morire a Los Angeles), più moderno (Killer Joe).

Resta incontrovertibile però che L’esorcista è ancora oggi, a cinquant’anni dalla sua uscita al cinema, un punto di svolta nella misura in cui incarnò quel ripiegamento su sé stessi nel del new horror americano, volto a (ri)scoprire la natura interna del Male esorcizzando il crescente degrado urbano.

Eppure, la paura che genere e incute il film viene da più lontano: e più precisamente dal raggelante realismo con cui viene introdotto nella piatta quotidianità l’elemento infernale, che corrompe l’innocente e stravolge la famiglia (anche se “moderna”, padre e madre separati).

Censurato -Reagan che fa scempio del suo corpo e del suo sesso con un crocefisso-, osteggiato, maledetto, non risente minimamente il passare del tempo, essendo l’epigono e ancora oggi il modello per i film a venire.

L’esorcista è un’opera quasi sinestetica, anche a vederlo dopo cinque decenni, per come coinvolge lo spettatore mettendolo in gioco attraverso una potenza delle immagini incredibile, totale, assoluta, a partire da quell’incipit abbagliate in un’eruzione di suoni e luci e quasi odori dall’Iraq: resta quasi un film misterioso e dal valore totemico, per come incredibilmente negli anni Settanta ha saputo annichilire tutto intorno a sé, ragionano in maniera viscerale sulla blasfemia e sull’iconoclastia. Ma questo perché la regia di Friedkin non ha neanche una sbavatura, e insieme contiene il presente e riscrive la grammatica per gli anni a venire: niente viene lasciato ai lati dell’inquadratura, l’orrore viene mostrato full frontal e traccia nuove forme del linguaggio espressionista. Che poi espressionista è solo nel richiamo pittorico, perché L’esorcista pratica un ribaltamento figurativo della normalità, rientrando a pieno titolo nel Surrealismo.

Poco importa, oggi che il film viene riproposto in sala, se William Peter Blatty e la trasposizione del suo libro fossero reazionarie o reaganiane, nel loro mettere in scena l’adolescenza come rito di passaggio trasfigurativo e demoniaco: L’esorcista è un film enorme e più che moderno, sempre dieci passi avanti: perché siamo fatti della stessa materia di cui sono fatte le nostre paure, e basta un film a volte per riconoscerle.


di Gianlorenzo Franzì
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