Kitchen Stories
La cucina, rispetto alle altre stanze della casa, è un luogo misterioso che accomuna anziché separare. Unisce le persone, ma soprattutto sazia, a seconda della disponibilità materiale e spirituale, corpo e spirito, attraverso il rito del mangiare e del parlare. Calda, accogliente, oppure spoglia e trasandata, ma sempre pronta ad ascoltare in silenzio, lamenti o risate di gioia, delle persone che la abitano.
Siamo nel dopoguerra. Alcuni benpensanti esperti svedesi, si installano in un villaggio della Norvegia, allo scopo di monitorare per tutta la giornata, le abitudini culinarie di alcuni malcapitati volontari. La macchina da presa fissa il suo cavalletto all’interno della casa di Isak, ospitando il povero Folke, costretto ad assecondare i capricci dell’anziano. Proprio perché all’inizio, ci troviamo di fronte ad una serie di incomprensioni che si trasformano in una non comunicazione. La casa, anziché trasformarsi nella cucina in un’unica entità, si frammenta. Se Folke rimane nella sala da pranzo per compiere quest’assurdo monitoraggio, Isak, cerca di produrre le azioni più insignificanti. Poi passa nella camera da letto, dove instaura una nuovo spazio, o addirittura all’esterno. L’azione voyeuristica provoca una sorta di cortocircuito tra chi guarda e chi è guardato. Questo sistema mostra al più presto tutta la sua inutilità. L’atto del mangiare infatti, presuppone una sostanziale parità di classe. Non più l’alto e il basso (Folke e gli altri esperti, utilizzano una buffa scala per fare gli schizzi dei movimenti nella sala da pranzo), ma un’orizzontalità senza confini. Così, contro tutte le regole, inzia ad instaurarsi l’asse Isak/Folke, partendo proprio da questa parità culinaria e spirituale. Io do a te qualcosa, e tu mi ricambi. Mi manca il tabacco, eccotelo! Ho qualcosa da mangiare di tipico, eccotelo! Il gioco, in questo modo scopre tutte le sue inutili necessità, ribellandosi al principio del cacciatore/preda. Isak nella cucina offre il bene più prezioso, il suo cuore, imbastendo simpatiche conversazione con Folke, costruendo una solida posizione all’interno di quella stanza.
Il regista Bent Hamer porta il suo sguardo oltre tutti gli spazi chiusi pur regalando alla sala da pranzo un punto di vista privilegiato. Non ama stare al gioco degli esperti, preferisce sedere e bere una tazza di the e fumare un po’ di tabacco. La sua scrittura (la sceneggiatura e scritta in collaborazione con Jorgen Bergmark) indirizza le parole all’interno di un succulento ma delicato dolce, che alla fine passa dalle mani di Isak a quelle di Folke, trasferendo a quest’ultimo la tradizione dell’ascolto e dell’accoglienza, del rispetto e dei vecchi ma genuini gusti.
di Davide Zanza