Kadosh

Tra i registi attualmente in attività, Amos Gitai è certamente uno dei più discussi e scomodi dell’intero panorama internazionale. Cineasta politico (a suo modo), lucido e rigoroso, l’autore di Berlin Jerusalem genera sempre ad ogni suo nuovo film discussioni, polemiche, divisioni non tanto tra gli addetti ai lavori quanto piuttosto nella società civile, in particolar modo in quella israeliana. Il suo sguardo cinematografico è essenzialmente laico e analitico, uno sguardo che gli ha permesso di rappresentare il suo paese attraverso una trilogia formata da opere (Devarim, Yom Yom e Kadosh), dedicate alle maggiori città di Israele: Tel Aviv, Haifa, Gerusalemme.

Questa trilogia accolta in Europa con grande attenzione ed in genere ben recensita dai critici del Vecchio Continente ha provocato invece vivaci reazioni e forti contrasti proprio In Israele, paese affascinante, pieno di complicate sfaccettature e portato naturalmente al confronto dialettico.

Kadosh, film ambientato nella comunità ultraortodossa di Mea Shearim a Gerusalemme, ha rappresentato una tappa fondamentale del suo percorso personale all’interno della realtà israeliana, percorso che doverosamente riguardare anche la città simbolo dell’incredibile complessità dell’universo ebraico. Le accuse che gli sono state mosse in merito a questo sul film si riferiscono ad una sua sostanziale mancanza di obiettività nella rappresentazione di un ambiente religioso che da intellettuale laico non gli apparterrebbe. Ma l’operazione compiuta da Gitai non voleva essere quella di contrapporre semplicemente laici e religiosi e di mettere a confronto due diverse visioni dell’esistenza, quanto piuttosto quella di verificare la posizione e la condizione delle donne nell’ambito della vita degli ultraortodossi. E questo Gitai ha fatto, sottolineando in molte dichiarazioni pubbliche come il suo discorso riguardasse tutte le religioni monoteistiche.

In Kadosh, inoltre, l’approfondimento socio-antropologico pur emergendo con molta chiarezza e forza non mette in discussione la profondità del concetto di fede e lascia spazio alla descrizione dei sentimenti e della sofferenza interiore dei protagonisti. Amos Gitai, infatti, non si sogna di criticare l’aspetto spirituale dell’appartenenza religiosa (anzi semmai lo valorizza) ma intende portare alla luce tutte quelle sovrastrutture che l’uomo ha costruito intorno alla religione, sovrastrutture che hanno creato gerarchie precise e rigide. Così, se da un lato in Kadosh viene evidenziata questa realtà, dall’altro Gitai dipinge alcuni ritratti di straordinaria profondità spirituale che hanno con la fede un rapporto puro e totale. E tutto ciò è raccontato con uno stile personale ed elegante, in cui ogni inquadratura ha una forte solidità ed una ricercatezza estetica mai gratuita ma sempre collegata alla natura contenutistica delle immagini.


di Redazione
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