Jimmy Bobo – Bullet to the Head

I molti appassionati del cinema di Walter Hill possono gioire: a dieci anni esatti di distanza dal suo ultimo film (il fiacco e poco convinto Undisputed), il regista di titoli di culto quali I cavalieri dalle lunghe ombre, I guerrieri della notte, 48 ore e Johnny il bello torna a dirigere una pellicola declinando alla sua maniera il roboante armamentario del cinema d’azione un po’ in stile anni ’80 adattato alla sensibilità dei giorni nostri.

La formula adottata per questo ritorno in grande stile è infatti la stessa che ha garantito a Walter Hill di occupare un posto di assoluto rilievo nel pantheon di quanti si sono cimentati col genere buddy-buddy, ovvero quel tipo di film in cui l’azione adrenalinica si combina con l’interazione di due personaggi spesso diversi per razza, carattere e atteggiamento destinati però a diventare amiconi dopo inevitabili e di solito spassose frizioni iniziali.

Nel caso presente la “strana coppia” è costituita da un poliziotto di origini coreane e da un killer professionista. I due sembra che apparentemente non abbiano davvero nulla in comune. Nemmeno la città in cui agiscono, visto che uno è perfettamente integrato nella realtà di New Orleans mentre l’altro è in trasferta per lavoro da quelle parti e proviene dal dipartimento di polizia di New York. Divisi non solo dalla data di nascita e dalla professione (appartengono infatti a generazioni diverse e sono dalle due parti opposte della barricata), ma sopratutto dal modo in cui si rapportano al mondo che li circonda (mentre il più giovane è tutto tecnologia e sofisticazioni, il secondo non sa usare nemmeno uno smartphone e si limita alla forza bruta e alla voce dei ferri del mestiere), il sicario James Bonomo detto Jimmy Bobo e il poliziotto Tylor Kwon si trovano a dover collaborare perché decisi a stanare un assassino professionista che li ha privati dei rispettivi partner.

Sullo sfondo di una New Orleans forse mai intenzionalmente tanto brutta, sporca e cattiva (mostrata nella desolazione delle sue periferie più malconce e abbandonate forse non solo per fare da sfondo credibile al degrado morale che imbeve la vicenda fino al midollo, ma anche per ricordare all’opinione pubblica quanto poco si sia fatto per aiutare quella parte tanto amata di Louisiana a risorgere dalle macerie dell’uragano Katrina), Bobo e Kwon s’immergono insieme in un viaggio sordido nel cuore più nero della città che il primo conosce a menadito avendoci per anni seminato morte a pagamento, e che il secondo invece scopre lentamente in una discesa agli inferi in cui deve accettare come guida materiale e spirituale un delinquente che nella vita reale arresterebbe dopo la prima delle infinite violazioni cui gli tocca di assistere.

Sceneggiato dal padovano Alessandro Camon a partire dalla graphic novel Du plomb dans la tête scritta del francese Alexis “Matz” Nolant e illustrata da Colin Wilson, il film è ambientato in questa versione molto spoglia e degradata di New Orleans, città cara a Walter Hill già sin dai tempi dei suoi esordi in L’eroe della strada (pellicola cui viene fatto un diretto riferimento nella lunga sequenza finale, girata negli stessi capannoni abbandonati della compagnia Entergy già usati nel film che aveva Charles Bronson come protagonista).

L’operazione pare sia stata voluta più che altro da Stallone che, non ostante i 66 anni e un fisico ancora statuario che però non può non far pensare a spaventosi innesti genetici e a virtuosismi da laboratorio del Dr. Frankenstein, ha cavalcato l’onda lunga del successo della doppietta de I mercenari per cercare di allontanare i giorni della pensione e imporsi ancora una volta come il duro dai muscoli d’acciaio che forse non è più (anche se nella scena del bagno turco in cui fredda un avversario e rimane a torso nudo mentre sta eseguendo il compito sono ben pochi i ventenni palestrati a poter competere con un fisico simile).

Non è quindi un caso che l’intero film sia dominato da un’insistenza quasi morbosa sulla presenza di una muscolarità esibita in maniera quanto mai generosa praticamente in ogni scena. E dove non ci sono masse michelangiolesche di muscoli in movimento ipercinetico o chiamate a scontri di epica violenza (su tutti il duello finale a base di asce antincendio tra Stallone e il gigantesco Jason Momoa, il cattivone di turno visto all’opera in Conan the Barbarian), i corpi sono comunque sempre in vista anche grazie al fatto che Jimmy Bobo ha una figlia che fa la tatuatrice e appare spesso all’opera su pezzi di epidermide da istoriare coi suoi ferri del mestiere.

Solido e robusto grazie a una sceneggiatura essenziale nella quale non manca nulla di quel che può servire per convertire un film di pura azione in un prodotto dotato di cervello oltre che di masse muscolari in frenetico movimento, questo Bullet to the Head si presenta come un’esplicita operazione nostalgia molto vintage che sfrutta gli stilemi classici del genere di appartenenza sforzandosi quanto più può di trovare i mezzi per parlare anche alle masse di adolescenti che negli anni ’80 non erano ancora nati e che ignorano l’estetica di quel cinema ruvido ma efficace. Un cinema che – sembra voler dire Walter Hill con questo suo nostalgico ritorno alle origini – non può smettere di essere fonte di ispirazione per quanti vogliano ancora intrattenere il pubblico alternando con perfezione assoluta l’azione allo stato brado, i siparietti comici inseriti nei momenti di maggiore tensione e la riflessione sullo stato delle cose in atto.

Trama

Un killer professionista ormai avanti negli anni e un giovane poliziotto di origini coreane si trovano a dover fare squadra assieme per vendicarsi (anche se in modi diversissimi) del professionista che ha ucciso il compagno di lavoro del primo e un collega del secondo.


di Redazione
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