Jersey Boys

Da Clint Eastwood regista è lecito aspettarsi qualunque cosa. Perfino che, arrivato alla verde età di ottantaquattro anni e al trentacinquesimo film dietro la macchina da presa, decida di prendere in mano un progetto che galleggiava a Hollywood da anni e misurarsi con uno dei pochi generi cinematografici con cui non abbia mai osato confrontarsi nella gloriosa cavalcata attraverso i generi classici del cinema americano che è stata fino a oggi la sua carriera di regista capace di ritagliarsi uno scorcio originale a ogni titolo sfornato.

Ed è così che il progetto, inizialmente destinato a Jon Favreau il quale non era però riuscito a venirne a capo, ha attirato l’attenzione di Eastwood, deciso ad accettare quella che poteva sembrare almeno in teoria una scommessa impossibile. Ovvero tradurre al cinema un musical del peso di Jersey Boys (3500 repliche soltanto a Broadway dall’esordio nel 2005, sei Tony Awards rastrellati e versioni «locali» di uguale successo in almeno altri sei paesi in giro per il mondo), evitando il rischio di limitarsi a una piatta sostituzione di medium espressivo ma imprimendoci un marchio di fabbrica riconoscibile anche tra le maglie forse a lui poco congeniali del musical.

E se non si può certo negare che il rapporto tra Eastwood e la musica abbia già prodotto in passato tre grandi momenti di cinema (se si eccettua il documentario Piano Blues, alla musica country e all’amatissimo jazz della west coast erano dedicati rispettivamente i due splendidi Honkytonky Man e Bird nell’82 e nell’88), va rilevato come il plot elementare su cui il musical di Marshall Brickman e Rick Elice poggia sembrava scritto apposta per venire incontro ad alcune delle ossessioni tematiche che hanno da sempre caratterizzato il meglio della produzione di Eastwood. E cioè una storia di formazione condita con gli ingredienti classici del sogno americano nella quale ciò che conta davvero è l’esaltazione di valori antichi e inossidabili quali l’amicizia virile, lo spirito di corpo, la (s)lealtà e la lotta per un posto al sole sul palcoscenico della vita.

Non deve quindi stupire che il risultato finale sia una felice combinazione di tutte le componenti classiche del biopic fatto con serietà filologica e quelle ancor più canoniche del musical di Broadway travasato in kolossal hollywoodiano. Deciso a non tradire l’originale in scena in giro per il mondo da più di otto anni, Eastwood ha infatti scelto di non affidarsi ad alcuna star dal passato pieno di lustrini, optando invece per buona parte dei ruoli principali del quartetto (tre su quattro) per cantanti che avevano già interpretato le canzoni in diverse edizioni del musical sui palcoscenici di Broadway.

Scelta quanto mai azzeccata che ha una sua logica soprattutto se la si collega con la determinazione mostrata da Eastwood nel voler  ricostruire con maniacale precisione ambienti ed atmosfere dell’era in cui l’avventura dei Four Seasons nasce e si consacra in leggenda. Ovvero quel New Jersey dei tardi anni ’50 (siamo a Newark, nello stato di New York) in cui i giovani iniziavano a far sentire i primi fremiti di rivolta che avrebbero poi agitato il paese nel decennio successivo, ma soprattutto di quella parte del Nuovo Mondo in cui l’Italia era molto presente sia a livello di popolarità canora che — nostro malgrado — come ossessione malavitosa nel sottobosco molle dei tessuti più deboli della società.

A questo proposito, più che un semplice tributo in musica a una delle band più celebri oltreoceano prima dell’avvento dei Beatles e del loro sound di rivolta borghese, Jersey Boys è prima di tutto un nuovo e incisivo tassello nella personale analisi che Clint Eastwood da anni sta tentando di fare del cosiddetto «sogno americano» e dei vani tentativi che la società statunitense ha fatto di resuscitarlo dopo ogni suo fallimento di massa in varie epoche storiche che intorno a quel falso mito di successo costruito dal nulla hanno cercato di edificare il proprio mito.

La parabola artistica dei quattro ragazzotti di Newark che da delinquentelli da strada al servizio del più classico dei boss italoamericani in formato The Sopranos si convertono in star idolatrati da milioni di fan in delirio e vendono tonnellate di dischi come solo Elvis aveva saputo fare non è quindi soltanto la storia di un gruppo musicale e della sua corsa verso il precipizio del degrado dopo aver toccato le stelle, ma anche un ritratto in colori seppiati di un mondo che stava iniziando a perdere l’innocenza che forse non aveva mai avuto.

E così ecco sfilare inguardabili camicie bicolori con colletti a punta, chiome imbrillantinate anche la notte a letto, sgargianti cabriolet lunghe e pinnate come transatlantici, mafiosi di quartiere con la faccia travagliata di Christopher Walken e un codice etico da delinquente coi guanti bianchi, ma soprattutto tanto swing a fare da colonna sonora alle ansie di affermazione dei giovani nati poco prima della guerra e desiderosi di trovare il loro posto nella vita. Tutto ricostruito con straordinaria accuratezza e con autentico rigore onde evitare l’effetto facilone da nostalgica serie TV tipo Happy Days.

Scritto dagli stessi autori del musical, Jersey Boys si svolge in un arco di tempo compreso tra la fine degli anni ’50 e il 1990, quando i quattro componenti dei Four Seasons — separatisi per colpa dello stile di vita di Tommy De Vito che il gruppo lo aveva formato ma che aveva una fedina penale troppo lunga già a diciassette anni per poter pensare di resistere alle sirene del denaro facile senza dissipare inopinatamente anche quello dei compagni di viaggio e di palco — si riuniscono per un’ultima esibizione pubblica beandosi dell’abbraccio di un pubblico delirante che mostra di non averli mai dimenticati.

Il fatto che la sceneggiatura sia stata scritta dagli stessi autori del musical giustifica così una scelta funzionale che è figlia della rottura dell’illusione scenica tipica del teatro ma che alla maggior parte del pubblico cinematografico potrebbe risultare indigesta: sostituendo il classico espediente della voice off, ogni segmento narrativo del film viene infatti introdotto da uno dei quattro componenti della band che guarda in macchina rivolgendosi direttamente allo spettatore per commentare in anticipo quando gli sta per essere mostrato. Il tutto con un effetto volutamente straniante a ribadire la dimensione ludica con cui Eastwood si è accostato al genere di appartenenza del film.

Giocando sornione col suo pubblico, l’ottantaquatrenne regista di San Francisco dimostra con questa scelta di voler ribadire come Jersey Boys sia a suo modo anche un prodotto sperimentale di un autore che non vuole farsi mancare nulla a livello di confronti con forme espressive mai affrontate prima. Al punto da inserire una specie di simpatica citazione hitckockiana che si può apprezzare solo stando molto attenti: quando uno dei membri del complesso sta guardando la TV, sul vecchio monoscopio catodico appare per un attimo qualche fotogramma di Rawhide, celebre serie televisivawestern trasmessa negli USA a partire dal 1959 e con un giovanissimo Clint Eastwood nei panni del protagonista (visibile per pochi secondi in primissimo piano).

Il gioco di citazioni divertite e divertenti si fa ancora più cerebrale quando nel film compare un personaggio che si chiama Joe Pesci: si tratta di un maneggione che diventerà il manager della band ma che, di lì a qualche anno, sarebbe stato celebrato da Hollywood come uno dei più grandi caratteristi nonché attore feticcio di Martin Scorsese. Quello stesso Joe Pesci che, dopo aver fatto realmente il barbiere nella stessa Belville teatro delle avventure dei membri dei Four Seasons, nel mitico Quei bravi ragazzi avrebbe interpretato il personaggio di un mafioso chiamato Tommy DeVito, nome identico a quello del fondatore della band.

E a conferma che il film sia un falso musical pieno di stratificazioni culte che vuole nascondere i suoi reali intenti (ovvero il tentativo di mescolare il cinema biografico con quello di formazione all’insegna del ritratto sociale e culturale di un determinato periodo storico) c’è poi la scelta da parte di Eastwood di relegare sui titoli di coda la sola vera scena da musical di Broadway doc con tutti i protagonisti che ballano e cantano insieme in una coreografia che, citazione delle citazioni, sembra presa di peso da Grease, la cui canzone introduttiva era guarda caso interpretata proprio da Frankie Valli, il più longevo dei quattro Four Seasons.

Trama

Ascesa e declino di quattro ragazzotti del New Jersey che, a fine anni ’50, si uniscono per formare i Four Seasons, uno dei più fortunati complessi pop di ogni tempo.


di Redazione
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